Save the Children presenta il rapporto “Le Equilibriste - La maternità in Italia 2023”: dal record minimo di nascite al progressivo rinvio della natalità, dalla condizione lavorativa alla cura familiare
Nel 2022 è stato raggiunto il nuovo record minimo di nascite che scendono per la prima volta sotto le quattrocentomila: sono stati 392.598 i bambini e le bambine iscritti all'anagrafe nel nostro Paese. La riduzione riguarda soprattutto i nati all'interno del matrimonio e i primi figli e si è verificata anche nei nati da entrambi i genitori stranieri. Parallelamente si registra un aumento dell'età media delle donne al parto. A rilevarlo è il rapporto “Le Equilibriste - La maternità in Italia 2023” di Save the Children. Il calo delle nascite del 2022 è stato dell'1,9%, frutto di un andamento non costante nel corso dei mesi. A fine 2021 si intravedeva un recupero rispetto all’anno precedente, confermato nei primi mesi del 2022: gennaio, ad esempio, registrava una crescita delle nascite del 3,4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Durante i mesi primaverili, però, si è registrata una diminuzione repentina (-10%).
I dati più completi in merito alle nascite si hanno per il 2021, quando le registrazioni all’anagrafe sono state 400.2495. Sono in particolare le nascite da genitori entrambi italiani ad essere diminuite negli ultimi anni: 166 mila in meno rispetto al 2008, anno che precede l’inizio della Grande Recessione economica. A decrescere, poi, sono specialmente le nascite all’interno del matrimonio, 223 mila in meno nel confronto con il 2008 (-48,2%), e quasi 20 mila in meno rispetto al 2020. Nel 2021 i nati al di fuori del matrimonio sono stati il 40% del totale delle nuove nascite, con un aumento di 47 mila registrazioni rispetto al 2008.
Mentre all’inizio del millennio la contrazione riguardava soprattutto il calo dei secondi figli e quelli di ordine superiore, oggi l’abbassamento si manifesta con una minor presenza di primi figli. I primi figli nati nel 2021 sono il 34,5% in meno di quelli che nascevano nel 2008. Istat stima che tra le donne nate negli anni ‘80, quindi vicine alla fine della loro fase riproduttiva, ben un quarto siano senza figli, e poco più della metà (51,3%) ne abbiano avuti due o più, mentre una su quattro ne ha solo uno .
Oltre al calo si assiste anche a un progressivo rinvio della natalità: le donne in Italia diventano madri sempre più tardi. Confrontando i dati di oggi con quelli del 1995 e del 2010 vediamo che è cresciuta la fecondità nelle età superiori ai 30 anni e che la tendenza al recupero (ovvero le nascite che avvengono ad età più avanzate da parte di chi ha posticipato l’arrivo di figli), si ha solo a partire dai 35 anni. L’età media al parto rispetto al 1995 è di due anni più alta, e oggi raggiunge i 32,4 anni. Nel 2021, inoltre, l’età al primo figlio si è spostata di tre anni rispetto a quanto succedeva nel 1995, posizionandosi ora a 31,6 anni, con età più avanzate specialmente al Centro Italia.
Il rapporto di Save the Children rileva poi il calo delle nascite anche da madri straniere. I nati da almeno un genitore straniero sono passati da 107.339 nel 2012 a 85.878 nel 2021. I nati da entrambi i genitori stranieri sono passati da 79.894 nel 2012 a 56.926 nel 2021 con i tassi di fecondità calati da 2,18 a 1,87. La presenza straniera non è uniforme nel nostro Paese e così anche il contributo alle nascite: si passa dal 20,6% e 20,1% del Nord-Est e Nord-Ovest, per il 15,9% del Centro arrivando al 5,6% al Sud e 5,2% nelle Isole, per quanto riguarda le nascite da genitori entrambi stranieri sul totale delle nascite, che a livello nazionale è del 14,2%.
Sono le donne rumene a contribuire maggiormente in termini di nuovi nati (13.611), seguite dalle marocchine (9.559) e albanesi (8.680). Sono queste comunità che tendono maggiormente a formare coppie miste con italiani, mentre altri gruppi, in particolare le comunità asiatiche e subsahariane, tendono principalmente all’omogamia. In generale, le nascite da genitori stranieri sono in calo nel 2021 (-6,9%) rispetto al periodo pre-pandemico.
È la Provincia autonoma di Bolzano a guidare la classifica dei territori amici delle madri, seguita da Emilia Romagna e Valle D’Aosta, mentre le condizioni più sfavorevoli per le mamme si registrano in Basilicata, preceduta appena in fondo alla classifica da Sicilia e Campania. Quest’anno l’'Indice delle Madri', elaborato dall’Istat , si arricchisce di nuove e più complete dimensioni, con ulteriori indicatori, che comprendono la sfera del lavoro, come quella della demografia e della scuola, la salute (mortalità infantile e consultori), la violenza sulle donne, la partecipazione politica a livello locale, oltre al grado di soddisfazione personale.
Tra le regioni più “amiche delle mamme”, spiccano ai primi posti la Provincia Autonoma di Bolzano (118,8), l’Emilia-Romagna (112,1) e la Valle d’Aosta (110,3). Tutte e tre superano di ben 10 punti il valore di riferimento nazionale di 100, seguite da Toscana (108,7), Provincia Autonoma di Trento (105,9), Umbria (104,4), Friuli-Venezia Giulia e Lombardia (entrambe 104,2), che invece lo superano di poco.
Fanalino di coda le regioni Basilicata (84,3), Campania (87,7), Sicilia (88,7), Calabria (90) e Puglia (90,6), che occupano rispettivamente dalla 21ma posizione alla 17ma e sono sotto il valore di riferimento di almeno 10 punti, scontando una strutturale carenza di servizi e lavoro nei propri territori, a testimonianza di un investimento strategico da realizzare proprio in queste regioni.
Nel 2022, pur segnando una leggera decrescita, il divario lavorativo tra uomini e donne si è attestato al 17,5%, ma è ben più ampio in presenza di bambini: nella fascia di età 25-54 anni se c’è un figlio minore, il tasso di occupazione per le mamme si ferma al 63%, contro il 90,4% di quello dei papà, e con due figli minori scende fino al 56,1%, mentre i padri che lavorano sono ancora di più (90,8%), con un divario che sale a 34 punti percentuali. Il rapporto “Le Equilibriste” di Save the Children traccia, anche, un bilancio aggiornato delle sfide che le donne in Italia devono affrontare quando diventano mamme.
Pesano anche, e molto, differenze geografiche e titolo di studio. Nel Mezzogiorno l’occupazione delle donne con figli si arena al 39,7% (46,4% se i figli non ci sono), contro il 71,5% del Nord (78,9% senza figli), e in Italia le madri laureate lavorano nell’83,2% dei casi, ma le lavoratrici sono molte meno tra chi ha il diploma della scuola superiore (60,8%) e precipitano al 37,4% se c’è solo la licenza media. Quando il lavoro per le donne c’è, un terzo delle occupate ha un contratto part-time (32% dei casi contro il 7% degli uomini); se ci sono figli minorenni la quota sale al 37%, a fronte del 5,3% dei padri, e con una metà quasi di queste mamme (15%) che si è vista costretta ad un part-time involontario, che non ha scelto.
Un quadro poco favorevole alle madri lavoratrici emerge anche dai dati raccolti dall’INL sulle dimissioni: nel 2021, “delle 52.436 convalide totali, 37.662 (il 71,8%) si riferiscono a donne (madri) e 14.774 (28,2%) a uomini (padri)”, e la percentuale delle madri sale oltre l’81% tra giovani fino a 29 anni. Tra gli uomini il 78% delle dimissioni è legato al passaggio ad altra azienda e solo il 3% alla difficoltà di conciliazione tra lavoro e attività di cura, mentre per le donne questa difficoltà rappresenta complessivamente il 65,5% del totale delle motivazioni. Il gap lavorativo per le donne legato a genere e genitorialità è purtroppo ancora molto marcato nel nostro Paese, ancor più se si considerano le famiglie monogenitoriali (2,9 milioni nel 2021, il 17% del totale dei nuclei; nell’80% dei casi composte da madri single). Madri che si stima nel 44% dei casi vivano in una condizione di povertà, più diffusa tra chi ha un basso livello di istruzione (65%), rispetto a chi ha conseguito un livello di istruzione medio (37%) o alto (13%).
Il 12,1% delle famiglie con minori in Italia (762mila famiglie) sono in condizione di povertà assoluta, e una coppia con figli su 4 è a rischio povertà. Le famiglie in povertà assoluta sono il 22,6% tra le famiglie con cinque o più componenti, l’11,6% tra quelle con quattro, mentre cala al 7,1% per le famiglie con tre componenti e si ferma al 5% per quelle con due. Se in casa c’è un solo minorenne la povertà assoluta ha un’incidenza dell’8,1%, se i minori sono tre o più, il tasso arriva al 22,8%. Un quinto delle coppie con tre o più figli è in stato di povertà assoluta, mentre l’incidenza è del 6% per le coppie con un figlio minore, 11,1% per quelle con due figli minori.
L’incidenza della povertà varia anche a seconda della zona geografica se ci sono minori, e in generale colpisce 1 milione e 382mila bambini. Il 12,1% delle famiglie in cui sono presenti minori (762mila famiglie) sono in condizione di povertà assoluta. Anche l’indicatore Arope (people at risk of poverty or social inclusion), che misura il rischio di povertà facendo un confronto del tenore di vita, guardando al reddito, alle spese non monetarie e all’occupazione, conferma che il rischio di povertà o esclusione sociale è maggiore e cresce nel tempo tra gli individui delle famiglie con tre o più figli (41,1% del 2021 rispetto al 39,7% nel 2020 e 34,7% del 2019). Il rischio di povertà o esclusione sociale cresce in generale per le coppie con figli, per le quali aumenta al 25,3% rispetto al 24,7% del 2020 e al 24,1% del 2019.
Un gruppo che merita attenzione sono le famiglie monogenitoriali, che in un terzo dei casi erano nel 2021 a rischio di povertà ed esclusione. Le famiglie monogenitoriali sono aumentate nel tempo da meno di 1,8 milioni nel 2000 a circa 2,9 milioni nel 2021, il 17% del numero totale di nuclei famigliari, e nell’80% dei casi sono composte da madri single . Secondo uno studio comparato, si stima che in Italia le madri single siano per il 44% in condizione di povertà, e questa ancora una volta cresce al variare del livello di istruzione. Le madri single sono equamente distribuite tra i livelli di istruzione, ma la povertà è diffusa al 65% in caso di basso livello di istruzione, 37% se il livello di istruzione è medio, 13% tra le madri single altamente istruite. Queste madri sono spesso doppiamente svantaggiate nel mercato del lavoro, in quanto la loro situazione occupazionale è limitata non solo dalla loro bassa istruzione, ma anche dalle difficoltà di combinare il lavoro retribuito con le responsabilità familiari.
Numero di nuovi nati e di neomamme in calo, gap di genere nel mondo del lavoro che condiziona la natalità, 1 famiglia su 4 con figli a rischio povertà e, nonostante il sentimento di gioia per la maternità sia prevalente nella grandissima maggioranza delle madri, il 43% dichiara di non desiderare altri figli: tra le cause la fatica (40%), difficile conciliazione lavoro/famiglia (33%), mancanza di supporto (26%), scarsità dei servizi (26%). Dall’ottavo rapporto di Save the Children emerge il quadro di una "Italia a rischio futuro".
“Sappiamo che dove le donne lavorano di più nascono anche più bambini, con un legame tra maggiore fecondità e posizione lavorativa stabile di entrambi i partner. Tuttavia, la condizione lavorativa delle donne, e in particolare delle madri, nel nostro Paese è ancora ampiamente caratterizzata da instabilità e precarietà, a cui si aggiungono la carenza strutturale di servizi per l’infanzia, a partire dalla rete di asili nido sul territorio, e la mancanza di politiche per la promozione dell’equità nel carico di cura familiare", dichiara Antonella Inverno, responsabile Politiche Infanzia e Adolescenza dell'organizzazione.
"I provvedimenti approvati negli ultimi anni, pur andando nella giusta direzione, non sono che timidi passi sul fronte del sostegno alla genitorialità - sottolinea - Non possiamo permetterci di perdere l’occasione del Piano nazionale ripresa e resilienza per costruire finalmente una rete capillare di servizi per la prima infanzia ed è altrettanto necessario andare con più forza verso un congedo di paternità paritario rispetto a quello delle madri. L’Italia è un paese a rischio futuro, e se è vero che il trend di denatalità non può essere invertito velocemente, è ancor più vero che è quanto mai urgente invertire il trend delle politiche a sostegno della genitorialità per non perdere altro tempo prezioso".
Nel rapporto, anche un'indagine realizzata da Ipsos per Save the Children, da cui si evince che le mamme di bambine e bambini tra 0 e 2 anni testimoniano un vissuto di solitudine e fatica, dall’evento del parto alla ricerca di un nuovo equilibrio nella vita familiare e lavorativa. Dal sondaggio emerge che in ospedale, se la qualità dell’assistenza sanitaria è considerata buona dall’81% delle intervistate, 1 donna su 2 non si è sentita accudita sul piano emotivo e psicologico, e al ritorno a casa in molte non si sono sentite supportate dai servizi pubblici come l’assistenza domiciliare (58%) e i consultori familiari (53%). Le madri intervistate che hanno vissuto l’esperienza del parto hanno riportato di aver provato sia sensazioni positive che negative durante il post-partum nell’88% dei casi (47% in egual misura, 30% soprattutto positive, 11% soprattutto negative).
La gioia provata per l’arrivo di un figlio (il 77% delle intervistate che hanno provato sensazioni positive la cita come sensazione prevalente), insieme al senso di completezza (43%), serenità (40%) e appagamento (39%), si intrecciano con emozioni negative come la stanchezza (80% delle intervistate che hanno provato sensazioni negative), l’insicurezza (53%), la paura (51%), il senso di inadeguatezza (44%) e la solitudine (38%). Nella quotidianità, sono infatti le madri a dedicare gran parte del loro tempo alla cura del figlio/a, 16 ore contro le 7 del partner. Il 40% delle mamme intervistate fatica a ritagliarsi del tempo per sé. Il 40% delle donne riporta anche vissuti di crisi o conflittualità nella coppia dopo la nascita del figlio/a, e 1 donna su 5 segnala l’emergere di una maggiore aggressività del partner o dichiara di averne avuto paura.
Ben 6 mamme su 10 non hanno accesso al nido, risorsa chiave per la loro partecipazione al mercato del lavoro. In più di 1 caso su 4 ciò è dovuto a carenze del servizio pubblico. Rispetto alle politiche considerate maggiormente amiche dalle mamme, dalla ricerca emerge l’assegno unico, di cui usufruisce il 63% delle intervistate, mentre solo il 15% beneficia del bonus nido. Se quasi la metà del campione non ha intenzione di avere altri figli, perché troppo faticoso (40%), per le difficoltà a conciliare lavoro e famiglia (33%), per mancanza di supporto (26%) o per insufficienza dei servizi disponibili (26%), il sondaggio evidenzia quale sostegno potrebbe cambiare in positivo la propria propensione ad avere ulteriori figli. Tra quelli segnalati emergono un assegno unico più consistente (23%) o la possibilità di asili nido gratuiti (21%), ma anche un piano personalizzato di assistenza tarato sulle esigenze specifiche della famiglia (12%), un’assistenza domiciliare pubblica in caso di malattia del bambino/a per permettere ai genitori di non assentarsi dal lavoro (7%) o un sostegno psicologico pubblico che accompagni le madri nei primi mesi di vita (6%).
“In Italia si parla molto della crisi delle nascite ma si dedica poca attenzione alle condizioni concrete di vita delle mamme, le 'equilibriste' sulle quali grava la quasi totalità del lavoro di cura. Per sostenere la genitorialità occorre intervenire in modo integrato su più livelli. Occorre potenziare il sostegno economico alle famiglie con minori, a partire da tutte quelle che vivono in condizioni di difficoltà, considerando che la nascita di un bambino rappresenta in Italia uno dei principali fattori di impoverimento. Allo stesso tempo, in un Paese dove il numero dei giovani fuori dai percorsi di formazione, studio e lavoro raggiunge una delle percentuali più alte in Europa, è indispensabile garantire ai più giovani l’autonomia abitativa e condizioni lavorative dignitose", commenta Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children.
"I pochi bambini che nascono oggi dovrebbero poi vedere assicurato l’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia così come alle cure pediatriche. Eppure sappiamo che questi diritti fondamentali non sono assicurati in tutto il Paese dove permangono, come dimostra l’Indice regionale, gravissime disuguaglianze territoriali. Accanto ad una solida rete di welfare che accompagni i primi mille giorni di vita di un bambino è necessario un deciso impegno per assicurare alle donne, e in particolare alle mamme, la possibilità di sviluppare il proprio percorso lavorativo, riequilibrando i carichi di cura e trasformando un mondo del lavoro ancora oggi in molti casi ostile. Questo - conclude - significa sanzionare ogni forma di discriminazione legata alla maternità, incentivare il family audit, promuovere l’applicazione piena della legge sulla parità di retribuzione e rendere effettivi tutti gli interventi sulla parità di genere a partire da quelli previsti nel Pnrr”.
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