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Omicidio Saman, parla il padre: "Non l'ho uccisa io, è stato qualcuno in famiglia" - LA FOTO ESCLUSIVA

Il padre della ragazza uccisa: "Sono sicuro, l'omicidio è avvenuto in ambito familiare"

Saman e il padre in una foto esclusiva Adnkronos
Saman e il padre in una foto esclusiva Adnkronos
03 novembre 2023 | 14.45
LETTURA: 5 minuti

"Non ho ucciso mia figlia, non ho mai voluto ucciderla. Ma di una cosa sono sicuro, l'omicidio è avvenuto in ambito familiare". Sono le parole pronunciate da Shabbar Abbas in una pausa dell'udienza del processo a Reggio Emilia per l'omicidio della figlia Saman. Shabbar Abbas, ritratto abbracciato alla figlia nella foto esclusiva Adnkronos, è uno degli imputati: si è espresso con dichiarazioni rilasciate ai suoi avvocati difensori Enrico Della Capanna e Simone Servillo e riferite all'Adnkronos.

"Sono convinto, ma certo non sono detentore della verità assoluta, che la morte di Saman sia stata un incidente - spiega ancora Della Capanna all'Adnkronos -. Le indagini, portate avanti in maniera pessima, hanno sempre insistito su una e una sola ipotesi, affievolendo le altre. Eppure sono diverse le alternative possibili nella dinamica dei fatti. Sappiamo che Saman quella sera uscì di casa vestita con jeans e scarpe ben allacciate per andare via, chissà dove. È probabile che si sia riparata in casa di qualcuno, un parente certo, che si sia messa comoda e lì, magari al culmine di una lite, sia stata uccisa. Vero è che, nella fossa nella quale è stata trovata, non aveva né le scarpe né i calzini che calzava la sera in cui è fuggita. Oppure, altra ipotesi, è che un parente l'abbia afferrata di forza per bloccarla, per non farla andar via, e nel farlo le abbia spezzato l'osso del collo".

E la fossa? Un'ipotesi investigativa vuole sia stata scavata in più giorni. "È stata scavata il primo maggio - risponde l'avvocato Servillo - Ci avranno messo un’ora, non di più".

Esclusa, dai difensori di Shabbar Abbas, la premeditazione, resta quindi da confutare, eventualmente, la testimonianza resa in aula dal fratello della vittima. "Ha detto di aver visto dall’uscio di casa lo zio Danish prendere per il collo Saman e portarla nelle serre - spiega l’avvocato Della Capanna - Io martedì sera, terminata la scorsa udienza, sono andato coi miei due collaboratori, nel punto in cui il ragazzo dice di aver visto la scena. La luce di cui parla è a distanza di oltre 200 metri e la luna, che a novembre ha la stessa luminosità che ha a maggio, non mi rendeva minimamente riconoscibile ai miei due soci. Nonostante io abbia la pelle bianca".

Shabbar Abbas, presente in tutte le udienze, ascolta i racconti del figlio a testa bassa. Mai un sussulto, mai uno sguardo. "Ha paura per il ragazzo - dice l'avvocato -. Da subito non ha voluto coinvolgere il figlio. Nelle intercettazioni, quando diceva che avrebbe messo in mezzo lo zio, il cugino, lui gli diceva di non dire nulla, di restarne fuori. Quando poi è stato incalzato oltremodo, gli ha detto di dare la colpa a lui". E poi, sul rapporto di Shabbar con la figlia: "Voleva bene a Saman - precisa Della Capanna -. Al di là di quanto si è detto, c’è una foto che più di tutto lo racconta. Shabbar e sua figlia abbracciati sul letto, è stata scattata il 20 aprile, dopo la comunità. Ma soprattutto 10 giorni prima che di lei si perdessero le tracce".

"Quando Saman è andata in comunità i miei erano preoccupati per il loro onore, perché in Pakistan avrebbero pensato male di noi" ha detto poi il fratello in aula. "Mio papà ha cambiato più di 10 account su Instagram per contattarla e convincerla a tornare a casa. Un giorno Saman ha fatto una videochiamata e mia mamma, vedendo che si era fatta i capelli biondi, ha detto a bassa voce ‘prostituta'". "Quando Saman fumava - conclude - mia madre le diceva di smettere, mentre mio papà, appena dietro, diceva che una volta tornata l’avrebbe sistemata lui, che la faceva fumare lui". "C'è una cosa che mai nessuno mi ha chiesto. Dove fossero le scarpe di Saman. Mentre si preparavano per partire in Pakistan, i miei le hanno messe in valigia. Erano di marca con strisce nere e bianche, e dentro una linea d'oro" dice parlando della sorella che è stata seppellita scalza.

"Nessuno mi ha capito, dal Pakistan i miei parenti davano consigli a me su cosa fare e dire, mentre io stavo solo. Gli dicevo di non chiamarmi più. Quando ero stanco gli dicevo che avevo il telefono intercettato, così hanno smesso di chiamarmi" racconta il fratello di Saman al procuratore Gaetano Paci in relazione alle numerose telefonate ricevute da zie e cugine 'preoccupate' per le dichiarazioni rese dal ragazzo dopo la partenza dei genitori. "Io contattavo i miei parenti solo per sapere come stava mia madre. Mi dicevano che stava male, che mi pensava sempre, che era pure stata in ospedale per un infarto - ha continuato - Ma sapevo che mentivano, come avevano fatto con Saman. Lo facevano perché sapevano che ero molto attaccato a mamma e pensavano così di convincermi a non dire nulla o a dire cose false". "Saman non poteva stare con Saqib (il fidanzato, ndr.) perché veniva da una famiglia povera, non dello stesso livello del nostro" ha detto il fratello. "Papà ha fatto ricerche sulla sua famiglia - ha spiegato -. Cercava informazioni dagli account sui social, per vedere le foto di Saqib e dei suoi parenti, per capire così dove abitavano, la scuola frequentata dai figli”. “Io non avrei mai immaginato che dalle parole sentite, come ‘scavare’, e da quelle riunioni in casa sarebbero seguiti i fatti. Quando Saman è scomparsa, mi dicevano ‘Piangi, piangi’ ma è stato Noman a dirmi che era sotto terra. Sono uscito quindi con il quad a cercarla in moto. Ho cercato nelle serre e poi in un terreno libero lì vicino. Sbattevo i piedi contro la terra ma non ho trovato niente”. “Lo zio Danish mi minacciò di dire quello che mi aveva detto lui, altrimenti avrebbe ammazzato anche me”. “Ogni volta che ho dormito con lui, dopo l’omicidio di mia sorella ho sempre avuto paura di non svegliarmi l’indomani, di essere ucciso”.

Viene mostrata, poi, una foto del fratello di Saman, inviata il 9 settembre 2021 in chat e mostrata nell’aula della Corte di Assise dall’avvocato Enrico Della Capanna, difensore di Shabbar Abbas. Nello scatto si vede il fratello di Saman con il Kalashnikov Ak47 in pugno, una fascia con le munizioni stretta intorno all’addome e con una maglietta di un noto brand di abbigliamento già criticato perché usato dai terroristi. "L’arma era del padre di Ikram (uno dei due cugini indagati, ndr.) - ha risposto il ragazzo - la foto me l’ha scattata lui. Io poi l’ho pubblicata per fare il figo, non avevo intenzione di sparare a nessuno". (dall'inviata Silvia Mancinelli)

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