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La parola che cura, così un medico empatico 'accende' il cervello del malato

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12 febbraio 2019 | 18.25
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Cosa indossare sotto il camice bianco quando ci si appresta a incontrare un paziente? E' presto detto: una buona dose di gentilezza e uno stile di comunicazione adeguato ai bisogni del malato, dai toni ai gesti. Perché le parole possono essere macigni, ma anche scintille che accendono una reazione positiva in chi si ha di fronte, toccando le corde giuste o meglio le giuste aree del cervello. Di qualcosa che era stato finora teorizzato e verificato sul campo, oggi si hanno anche le 'prove fotografiche': nella relazione di cura, parole gentili pronunciate dal medico nel modo migliore e al momento opportuno scatenano una reazione a livello neurale e favoriscono comportamenti virtuosi nel paziente che la malattia la vive sulla sua pelle e deve trovare le risorse per combatterla.

LO STUDIO ITALIANO: "ECCO COSA SUCCEDE AL PAZIENTE QUANDO IL DOTTORE GLI PARLA" - Un team di scienziati italiani ha osservato questo effetto 'in diretta', guardando a cosa succede nel cervello del malato quando il medico gli parla. Quali aree si attivano, come lo fanno, con che effetto. A queste domande risponde lo studio sperimentale condotto dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus in collaborazione con l'università di Udine, Clinica psichiatrica Asuiud Santa Maria della Misericordia. Presentata oggi a Milano, l'indagine battezzata 'Fiore' (Functional Imaging of Reinforcement Effects) ha esplorato diversi stili comunicativi, scoprendo che attivano differenti aree cerebrali e che anche la sfera dell'apprendimento può essere coinvolta.

Gli autori della ricerca lo hanno verificato sottoponendo a scansione cerebrale 30 persone sane (11 maschi e 19 femmine, età tra i 19 e i 33 anni), mentre partecipavano a un test mirato. Il primo aspetto evidenziato dagli esperti è che l'insieme di gestualità e parole scelte dal medico produce effetti sul malato. E ora, sottolineano, "questa evidenza esperienziale, indagata dalla psicologia comportamentale, ha una sostanza neuroscientifica". Perché gli effetti cerebrali in questione sono precisi e visibili.

Lo studio affonda le radici in un lavoro portato avanti in precedenza dalla Fondazione Giancarlo Quarta, impegnata da anni nell'approfondimento del tema del rapporto medico-paziente con lo scopo di alleviare la sofferenza dei malati. In particolare, la Onlus ha sperimentato in collaborazione con l'Istituto nazionale tumori di Milano un modello relazionale in 5 punti. Si chiama 'Ippocrates' - nome evocativo - e individua 5 aree di bisogno del malato a cui corrispondono altrettanti comportamenti e stili comunicativi in grado di soddisfarlo.

Per esempio la prima area è il bisogno di capire, sperimentato dal paziente quando si trova catapultato nel mondo sconosciuto di una malattia. In questo caso, secondo il modello Ippocrates i comportamenti relazionali che hanno la massima probabilità di efficacia sono di ordine razionale. Segue il bisogno di sicurezza nel futuro, che per il malato è spesso un orizzonte denso di preoccupazioni rispetto al cammino che dovrà intraprendere. A questo bisogno viene abbinato uno stile comunicativo improntato alla continuità.

Ci sono poi il "bisogno di essere compresi emotivamente ed essere a proprio agio nella situazione" e il "bisogno di attenzione", elencano gli autori del modello. Entrambe sono due aree di necessità emotiva e sono quelle prese in considerazione dall'indagine Fiore. Nel primo caso viene abbinato uno stile relazionale improntato all''influenzamento', ossia caratterizzato dall'espressione di sentimenti ed emozioni, da manifestazioni di disponibilità, flessibilità o aiuti concreti. Obiettivo tranquillizzare, motivare e dare speranza. Per l'altro bisogno invece lo stile relazionale è quello improntato all'ascolto e alla valorizzazione delle specifiche istanze del paziente. E si punta a sollecitare il convincimento del paziente, la sua adesione sia razionale che emotiva. Il modello Ippocrates si completa con l'ultimo bisogno evidenziato: il decidere, che richiede uno stile relazionale definito di realizzazione e basato sull'espressione di indicazioni, suggerimenti, proposte e soluzioni.

Nella ricerca presentata oggi gli scienziati hanno messo a fuoco, mediante tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica funzionale), la presenza di specifiche attivazioni cerebrali correlate alle differenti modalità argomentative e comportamentali rispetto ai due specifici bisogni emotivi del paziente (comprensione emotiva e attenzione), due aspetti importanti per sentirsi riconosciuto e per superare il senso di spersonalizzazione della malattia, evidenziano gli esperti.

Alle 30 persone arruolate nello studio sono state mostrate una serie di vignette raffiguranti situazioni di aiuto/influenzamento e di riconoscimento/valorizzazione, ed è stato chiesto ai partecipanti di immedesimarsi nelle scene e di esprimere apprezzamento per comportamenti più o meno conformi ai diversi stili di comunicazione.

Risultato: dalle scansioni è emerso che "comportamenti di valorizzazione attivano la sfera sensoriale e in particolare la corteccia visiva", mentre "comportamenti di influenzamento stimolano le regioni del cervello collegate alla teoria della mente che, tra le altre cose, si traduce nell'acquisizione di comportamenti da parte della persona". Dunque, concludono gli autori, una buona comunicazione orientata non solo a gratificare genericamente il paziente, ma a gratificarlo con uno stimolo e un'indicazione precisa del comportamento virtuoso, favorisce la reiterazione del comportamento.

LO PSICHIATRA: "PER I CAMICI BIANCHI SERVE L'ESAME DI EMPATIA" - "La verità è che oggi i medici non sono preparati a comunicare col paziente. Nelle università italiane, nel contesto della Facoltà di Medicina, abbiamo corsi di psicologia clinica che si chiamano proprio 'relazione medico-paziente' e questo è ottimo. Ma sono slide su slide, servirebbe invece una prova pratica di empatia". E' la riflessione di Fabio Sambataro, professore associato di Psichiatria all'università degli Studi di Udine.

L'esperto spiega all'AdnKronos Salute l'importanza di prevedere un 'training dell'empatia' per i camici bianchi. "E' stato anche oggettivamente dimostrato che ha un effetto biologico", assicura. "Tra gli anni '50 e '70 - ripercorre - c'è stata una rivoluzione della medicina che ci ha permesso di diventare sempre più tecnici e molto meno orientati verso il paziente, con un processo che si chiama 'de-umanizzazione'. Qualcuno pensa che il distacco sia d'aiuto al malato. In realtà, se è vero che il 'sentire' la stessa cosa che sente il paziente non è utile, il 'capire' quello che sente è fondamentale".

E il medico spesso "non ha una grande percezione - osserva Sambataro - come mostra per esempio già uno studio di 15 anni fa dei chirurghi ortopedici Usa. La ricerca prevedeva che 800 pazienti e 700 medici valutassero entrambi la capacità di comunicazione verso il paziente. I medici dicevano nel 75% dei casi che erano stati capaci di trasmettere qualcosa, per i pazienti questa percentuale scendeva al 21% e i problemi più gravi venivano associati alla mancanza di comunicazione e del prendersi cura". Altro dato che incide è il tempo. "Un'altra ricerca - continua lo specialista - ha rilevato che solo il 23% dei pazienti riesce a dire il motivo per cui è andato a farsi visitare. Mediamente dopo circa 18 secondi il medico lo interrompe e non vuole più sentire. Neanche un minuto su 20 è dedicato a trasmettere informazioni".

"Gli americani su questo fronte sono più avanti - riflette lo psichiatra - Nel processo di accreditamento del medico esiste questo 'clinical skill' e quindi nella prova clinica pratica si testa anche la comunicazione camice bianco-paziente. E' parte dell'esame. C'è un attore che recita una parte e si valuta anche come questo attore ha sentito la relazione comunicativa. Stesso discorso per la specializzazione, che prevede non solo l'ottenimento, ma esami periodici per mantenerla. Anche in questo contesto si considera la capacità di comunicazione col paziente".

Sempre negli Usa e nuovamente la Società di ortopedia, prosegue Sambataro, "ha pensato di rivolgersi a un istituto di training e si è visto che già dopo 18 settimane" questo allenamento "era in grado di migliorare tantissimo l'empatia. E' dunque qualcosa che si può fare e gli strumenti ci sono. Gli esempi concreti sono fondamentali, avere vignette che illustrano situazioni pratiche, ricevere feedback. Tutto questo in America si fa tanto. In Italia queste cose ancora mancano. E' importante insegnare le basi neurobiologiche dell'empatia, perché si è visto che porta al miglioramento della relazione medico-paziente".

La tecnologia, in alcuni casi, può essere d'aiuto. "E' stato di recente condotto uno studio con un videogame utilizzato per testare le capacità empatiche della persona - riferisce il docente - Protagonista un alieno che doveva quantificare e decodificare le emozioni. Si è visto che le stesse aree cerebrali attivate in questo studio mostravano un cambiamento nella loro attivazione dopo un training giornaliero col videogame. L'effetto che si ottiene allenando l'empatia è dunque dimostrabile". Quanto all'avanzare della tecnologia nella professione medica, "a mio avviso - conclude Sambataro - sono positivi tutti i progressi della scienza e della tecnica, ma vanno integrati. Il primo passo è sempre ascoltare il paziente. Il rapporto umano è l'inizio di tutto. E si è visto che anche chi non appartiene a branche della medicina estremamente tecnologiche ha lo stesso rischio di deumanizzazione, che resta costante nel tempo".

L'ONCOLOGO: "PIU' SGUARDI E MENO SOCIAL" - "Non sono iscritto a Facebook, non twitto, la mia comunicazione cura un po' di più l'aspetto umano che si ha nel rapporto diretto. Ai giovani camici sconsiglio vivamente di affrontare una discussione con WhatsApp, perché per esperienza personale ho visto che se c'è un modo per non intendersi è eliminare il linguaggio del corpo". E' la visione di Filippo de Braud, ordinario di Oncologia medica all'università degli Studi di Milano e direttore del Dipartimento di oncologia medica ed ematologia all'Istituto nazionale tumori del capoluogo lombardo.

"La gestualità, gli sguardi, il linguaggio del corpo sono un aspetto molto importante nella comunicazione - spiega l'esperto all'AdnKronos Salute - Uno può dire parole dure con uno sguardo dolce e l'altro può capire che il significato delle parole è quello, ma non c'è astio. Se le stesse parole si traspongono in maniera sì diretta ed efficace, ma anonima", per esempio in una chat, "allora si perde tutta quella che è la parte dell'animo. Io cerco di imparare dai giovani, ma comunico loro questo messaggio. Cerco di stimolare in loro un'attenzione alla comunicazione".

Per de Braud "trasmettere ai giovani un modello virtuoso nella comunicazione auspicabilmente aiuterà a migliorare le relazioni col paziente. C'è un'evoluzione culturale favorevole. E le iniziative che vanno in questa direzione bisognerebbe riuscire a integrarle in un processo di formazione. Nelle nostre università c'è qualche miglioramento da fare. Noi nel corso di specializzazione della nostra università abbiamo tante ore di psiconcologia ed è sicuramente importante, però oltre a questo bisognerebbe fare un po' più di pratica. Prestare attenzione non solo alle regole del gioco, ma a come gestire la partita nella concretezza. E questo si fa affiancando persone che sappiano comunicare".

Lo specialista spiega che quando interagisce con i giovani camici bianchi cerca "di far capire loro che devono conoscere le persone. I vizi, le virtù e le attitudini. Cerco di spiegare che non si deve per esempio chiedere al paziente 'Come stai?', ma 'Cosa hai fatto ieri sera, quando hai cucinato l'ultima volta?'. Alcune informazioni, infatti, possono aiutare a capire la situazione evitando la domanda diretta che impone a chi la riceve un atteggiamento di difesa e una risposta non proprio veritiera, che può trarre in inganno".

All'Int "stiamo puntando molto sul fatto che la cultura è un aspetto importante". Quanto alla tecnologia, osserva de Braud, "è utile ed è importante aggiornarsi, ma il limite a qualsiasi livello - avverte - è che la velocità di sviluppo della tecnologia è maggiore della curva di apprendimento di chi dovrebbe farne uso".

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