I Repubblicani ammettono: prove "inconfutabili delle interferenze russe" ma si scagliano contro l'Fbi
L'atteso rapporto sul Russiagate della commissione Intelligence del Senato conferma i contatti tra la campagna di Donald Trump del 2016 e la Russia. In particolare si evidenziano le relazioni tra Paul Manafort, che per alcuni mesi è stato presidente della campagna ed ora sta scontando una pena di 7 anni e mezzo, con Konstantin V. Kilimnik, che nel quinto e ultimo volume del rapporto di 950 pagine pubblicato oggi viene definito "un agente dell'intelligence russa".
Le relazioni di Manafort, si legge ancora nel rapporto conclusivo dell'inchiesta avviata nel 2017, hanno rappresentato "una grave minaccia per il contro spionaggio". "Manafort aveva assunto e lavorava a stretto contatto con un cittadino russo, Konstantin Kilimnik che è un agente dell'intelligence russa", si legge nel rapporto che sottolinea come la commissione abbia ottenuto informazioni che collegano il russo agli hacker dei servizi russi e all'operazione di diffusione di materiale sottratto ai democratici.
"Manafort a partire dal 2016 lavorò con Kilimnik a narrazioni tese compromettere le prove che la Russia aveva interferito nelle elezioni del 2016", si legge ancora nel rapporto parlando dello stratega elettorale che è stato condannato per aver nascosto al fisco i proventi milionari delle sue consulenze elettorali per i partiti filorussi in Ucraina.
Il rapporto è basato sulle interviste di oltre 200 testimoni, la revisione i oltre un milione di documenti. "Nessuna inchiesta è stata più esaustiva di questa", ha dichiarato Marco Rubio, il repubblicano che è il presidente ad interim della commissione Intelligence.
Ovviamente un materiale così ampio si presta a letture di segno opposto da parte dei due partiti, con il vice presidente dem della commissione, Mark Warner, che parla di prove di "un livello sconvolgente di contatti tra staff di Trump ed agenti del governo russo che è una vera minaccia per le nostre elezioni".
I repubblicani d'altro canto invece puntano il dito, ancora una volta, sul modo in cui l'Fbi ha avviato l'inchiesta sul Russiagate dando "una fiducia ingiustificata" ad un dossier anti Trump, riferendosi al famoso rapporto Steele, dal nome dell'ex agente segreto britannico che lo realizzò per gli avversari elettorali di Trump.
Pur ammettendo che la commissione ha trovato prove "inconfutabili delle interferenze russe", Rubio ha sottolineato che non vi sono prove certe del fatto che il candidato Trump o la sua campagna abbiano attivamente colluso con Mosca. I russi, anzi, si sarebbero "approfittati" della "relativa inesperienza governativa" del team di transizione di Trump per avere con i suoi membri contatti ritenuti illeciti.
Ma quello che è secondo Rubio "inquietante" è il modo in cui l'Fbi sia stata "pronta a basarsi" su un rapporto come quello di Steele "senza verificare le sue fonti ed i suoi metodi" per richiedere l'autorizzazione per le intercettazioni ai danni della campagna di Trump.