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Cinque anni dopo il Covid, per l'Ue è di nuovo l'ora delle scelte

Giovedì 6 marzo Consiglio Europeo straordinario su difesa e Ucraina, Ungheria e Slovacchia pronte a farlo fallire.

Cinque anni dopo il Covid, per l'Ue è di nuovo l'ora delle scelte
03 marzo 2025 | 13.29
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Esattamente cinque anni fa, il 3 marzo del 2020, la Francia disponeva la requisizione delle scorte di mascherine di protezione e il divieto di esportarle, per combattere la diffusione della Covid-19. Il giorno dopo, il 4 marzo, anche la Germania vietava l'esportazione, per decreto, di materiale protettivo come occhiali di sicurezza, mascherine e altro. Pochi giorni prima, il 28 febbraio 2020, il governo italiano, alle prese con il propagarsi del virus Sars-Cov-2 in Lombardia e Veneto, aveva chiesto aiuto ai partner europei, chiedendo l'invio di materiale sanitario, in particolare di mascherine di protezione.

Un appello caduto nel vuoto. L'Italia, dichiarava l'allora Rappresentante permanente a Bruxelles Maurizio Massari a Politico.eu, "ha già chiesto di attivare il Meccanismo di Protezione Civile dell'Unione Europea per la fornitura di attrezzature mediche per la protezione individuale. Ma, sfortunatamente, nessun paese dell’Ue ha risposto all’appello della Commissione. Solo la Cina ha risposto bilateralmente. Certamente non è un buon segnale di solidarietà europea".

La richiesta di aiuto da Roma, come ha ricostruito lo storico olandese Luuk Van Middelaar in un ciclo di lezioni al Collège de France ("De la crise ukrainienne à la pandémie: l'Europe, un thriller géopolitique", disponibile su Radio France), aveva fatto suonare l'allarme rosso nelle cancellerie del Vecchio Continente, innescando una risposta a catena, potenzialmente esiziale per l'Ue: divieti di esportazione di materiale medico in diversi Paesi, in pratica liberi tutti, ognuno per sè. Se l'Europa avesse continuato su quella strada, l'Unione avrebbe ricevuto un colpo potenzialmente esiziale.

La Francia, per esempio, requisì il 5 marzo a Lione un carico di mascherine destinato alla Svezia, come ha ricostruito l'Express, cosa che provocò forti tensioni tra Parigi e Stoccolma. Episodi simili si moltiplicarono in quei giorni confusi, a mano a mano che i governi si accorgevano che la malattia che aveva costretto la Cina a rinchiudere in casa i cittadini di Wuhan si era già diffusa anche in Europa, in particolare in Lombardia, regione che ha intensi legami economici e commerciali con il colosso asiatico.

A poco a poco i leader europei, anche grazie al lavoro instancabile condotto a Bruxelles da alcuni commissari come l'italiano Paolo Gentiloni e il francese Thierry Breton, si convinsero che la via della disgregazione non avrebbe portato da nessuna parte e che, in ultima analisi, sarebbe stata dannosa per i rispettivi interessi nazionali. Roma, come scrisse allora Massari, "non dovrebbe essere lasciata sola a gestire questa crisi. Oltre alle misure nazionali, questa è una crisi che richiede una risposta globale e, soprattutto, europea".

L'argomento, ripetuto come un mantra a vari livelli, pian piano fece breccia. Anche perché, come ha notato Van Middelaar, il 13 marzo 2020 era atterrato a Fiumicino, e non in Lombardia (a sottolineare il carattere diplomatico della missione), un aereo da carico della Croce Rossa cinese, con 31 tonnellate di mascherine e altro materiale sanitario. Insomma, davanti al 'rompete le righe' dell'Europa davanti all'avanzare della pandemia, la Cina si incuneava, fornendo aiuti medici, mentre dagli Usa, storico alleato, non arrivavano aiuti.

Il 15 marzo, 12 giorni dopo il decreto francese e due giorni dopo la missione cinese a Roma, l'allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio annunciava che Germania e Francia avevano rimosso il divieto di esportare mascherine, tute e schermi facciali. "Siamo impegnati - scriveva - a tutelare la salute dei nostri cittadini e in questa fase, più di prima, è fondamentale la collaborazione tra gli Stati. Siamo davanti a una crisi che riguarda tutti, in Italia e all’estero. Se rimaniamo uniti possiamo farcela".

Rimuovendo il divieto di export, i principali Paesi dell'Ue facevano una scelta di unità e di collaborazione con i partner, in particolare con l'Italia, che in quel momento era lo Stato più colpito dalla pandemia di Covid-19. Quella scelta avrebbe portato, gradualmente, al lancio del piano Sure per aiutare gli Stati con i rispettivi schemi in sostegno dell'occupazione (come la cassa integrazione in Italia), al piano per l'acquisto congiunto dei vaccini (che sarebbero arrivati poi solo grazie ad una Big Pharma americana, Pfizer), fino al piano da 800 miliardi Next Generation Eu.

Oggi, esattamente cinque anni dopo, i grandi Paesi dell'Ue si trovano di fronte ad un bivio per certi versi simile, davanti all'inversione a U della politica estera americano sulla guerra in Ucraina voluta da Donald Trump, che ha cacciato Volodymyr Zelensky dalla Casa Bianca.

Ci sono importanti differenze rispetto al 2020. Tra l'altro, mentre il Sars-CoV-2 era un nemico per tutti, la Russia di Vladimir Putin è considerata un nemico da molti Paesi, ma certo non da tutti e non da tutti nella stessa maniera. L'Ungheria di Viktor Orban ha già chiarito, come spiegano fonti diplomatiche europee, che tutto quello che è stato scritto sull'Ucraina nelle conclusioni dei Consigli Europei finora non vale più nulla, dato che c'è una risoluzione Onu sottoscritta dagli Usa che dice cose assai diverse.

La Slovacchia di Robert Fico non si spinge così in là, ma chiede garanzie precise sulle forniture di gas. I due Paesi sono tuttora dipendenti dall'import di metano russo. La stessa economia tedesca, da quando non dispone più di gas russo a buon mercato via tubo, anche a causa del sabotaggio subito dal gasdotto Nordstream, fatto saltare in aria da ignoti subacquei nel Baltico, è caduta in recessione. E, come ha notato l'Economist, il probabile nuovo cancelliere Friedrich Merz non ha escluso esplicitamente che le forniture di gas da Mosca possano riprendere, un domani.

Altre divisioni sono più sottili e meno palesi, ma non per questo inesistenti. Mentre Francia e Regno Unito sembrano determinati a voler inviare truppe in Ucraina con funzioni di peacekeeping, dopo un cessate il fuoco, altri Paesi, come Germania e Italia, che non a caso sono più a est dei primi due, sono cauti, anche perché sanno bene che i russi, come ha detto una volta papa Francesco, sono "imperiali" e "non permettono a nessuno di avvicinarsi a loro". I rischi, nel mandare truppe europee in Ucraina con funzioni di peacekeeping senza la tutela dell'articolo 5, sono altissimi: il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto chiaramente che sarebbe una scelta "suicida" mandare truppe solo europee, aprendo però all'invio di un contingente italiano sotto bandiera Onu.

Come è stato notato, prima di inviare truppe bisognerebbe avere una risposta chiara e condivisa ad una domanda: che succederebbe se i russi ammazzassero qualche soldato europeo, per sondare la reazione del Vecchio Continente? L'Unione Europea sta faticosamente cercando una linea comune in materia di difesa, insieme al Regno Unito che malgrado la Brexit non può ignorare la sicurezza dell'Europa Occidentale. Non è detto che ci riuscirà: gli interessi delle diverse nazioni europee sono spesso divergenti. Come ha detto Mario Draghi, mettersi d'accordo a 27 su chi è "il nemico" è molto difficile, perché, un finlandese ha priorità diverse da uno spagnolo, uno spagnolo vede il mondo in modo diverso da un lettone, idem un irlandese rispetto a un bulgaro.

Per questo i vertici sulla difesa europea si susseguono, in vari formati: dopo i due summit di Parigi convocati da Emmanuel Macron e quello di ieri a Londra, voluto dal britannico Keir Starmer, giovedì 6 marzo i leader Ue si vedranno a Bruxelles a 27, per tentare di concordare una linea comune davanti alla retromarcia americana nel sostegno all'Ucraina, il Paese dello spazio postsovietico che tra i sei rimasti fuori dall'Ue (con Bielorussia, Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaigian) è di gran lunga il più importante, per le sue dimensioni e le sue ricchezze. E' stato invitato anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Sul tavolo ci saranno due temi: la guerra in Ucraina e la difesa comune europea. Una delle questioni più rilevanti sarà come finanziare l'aumento della spesa per la difesa di cui l'Ue ha urgente bisogno, davanti al concreto rischio di un disimpegno americano. Se a livello nazionale la Commissione ha già detto che proporrà di attivare una clausola di salvaguardia per la difesa, a livello europeo le opzioni sono tante e saranno delineate da Ursula von der Leyen in una lettera ai leader che sarà pubblicata domani.

Su questo tema, paradossalmente, il freno al debito che è inserito nella Costituzione tedesca potrebbe essere d'aiuto: per cambiarlo occorre una maggioranza dei due terzi al nuovo Bundestag, di cui Cdu-Csu e Spd non dispongono (a meno che non vogliano riconvocare il vecchio Bundestag, dove la maggioranza ci sarebbe, ma sarebbe una mossa che, pur legale, sarebbe politicamente molto discutibile). Potrebbero ottenere l'appoggio della Linke, che però, pur essendo contraria al freno, di sicuro non è disposta a rimuoverlo per aumentare le spese militari.

Quindi, se la Germania vorrà aumentare la spesa militare, come sembra ormai rassegnata a fare, dovrebbe ricorrere a un fondo extra bilancio, come ha già fatto la coalizione Ampel (semaforo) Spd-Verdi-Liberali. Ma si tratta di una via provvisoria, e incerta. Non è detto che, alla fine, essendo impossibilitata ad aumentare le spese per la difesa per vincoli costituzionali autoimposti, la Germania non finisca per vedere con altri occhi un piano per la difesa comune finanziato a livello Ue, e non a livello nazionale.

Le divisioni tra i 27 restano, anche se il fatto che nessuno abbia finora rotto apertamente l'unità (a parte l'Ungheria) finora lascia qualche speranza. Sul tavolo c'è anche la nomina di un inviato speciale dell'Ue per l'Ucraina, una decisione che per tre anni non è mai stata presa e che, forse, avrebbe aiutato a trovare una soluzione diplomatica al conflitto, come ha notato l'ex premier Matteo Renzi. Se non è stato nominato un inviato Ue per l'Ucraina in tre anni, è perché gli Stati membri, formalmente uniti dietro la bandiera gialloblù dell'Ucraina e lo slogan 'Slava Ukraini', con diversi gradi di entusiasmo, erano in realtà divisi sul da farsi.

Ma ora il momento delle scelte si avvicina: se l'Ucraina e la Russia si siederanno al tavolo per trattare, cosa che resta un'ipotesi, allo stato, l'Ue non potrà certo pretendere di avere 27 posti al tavolo. Se andrà bene, ne avrà uno, e neanche quello è scontato. Se arrivasse a quel momento senza neppure avere indicato un proprio rappresentante, darebbe un ottimo argomento a Usa e Russia, già non entusiasti, per escluderla definitivamente dalle trattative.

Si vedrà giovedì 6 marzo se gli europei saranno in grado di prendere decisioni in comune, anche superando i veti dell'Ungheria, le perplessità della Slovacchia e le proprie divisioni interne, come fecero nel 2020 arrivando a varare Next Generation Eu, oppure se si sparpaglieranno, seguendo ciascuno il proprio immediato tornaconto nazionale. Russia, Usa e Cina non aspettano altro, per incunearsi in un'Europa debole e divisa. Come fece la Croce Rossa cinese il 13 marzo 2020.

(di Tommaso Gallavotti)

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