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Una viticoltura straordinaria a cominciare dalla peculiare forma della vite, l’alberello pantesco.
Atterrare a Pantelleria è planare sul verde brillante della vegetazione che ricopre l’isola e ritrovarsi in un luogo sospeso dall’aspetto primordiale, in cui la vista acuminata e vulcanica è interrotta dai candidi ventri bianchi dei Dammusi, le tipiche architetture rurali.
L’endemismo è la regola di questo lembo di terra emersa tra Sicilia ed Africa, appena 84 km quadrati circondati dal Mediterraneo che qui si fa già porta del Medioriente.
Lo spiegano bene i panteschi ai forestieri che arrivano attratti dalla potenza della natura: ogni forma di vita è unica ed irripetibile, adattandosi al clima estremo del 37° parallelo che altrove è deserto, si è modificata con una strategia ambientale strisciante fatta di basse altezze al riparo dal vento che spezza.
Una biodiversità in continua evoluzione, un fermento vitale invisibile che domina l’isola dal 2016 interamente tutelata dal Parco Nazionale di Pantelleria.
Il nome arabo “Bent el Riah” la figlia del vento, è il riconoscimento di un’appartenenza a quell’elemento così intangibile e al tempo stesso così integrato nella pratica agricola che eroicamente si barrica dietro una civiltà della pietra fatta di oltre 12.300 km di muretti a secco e di circa 396 giardini panteschi.
Anche la viticoltura pantesca è singolare. A cominciare dalla peculiare forma di allevamento della vite, l’alberello pantesco, dal 2014 iscritta nel registro UNESCO dei beni immateriali patrimonio dell’umanità. C’è poi lo Zibibbo, la varietà autoctona, protagonista dell’isola con espressioni poliedriche ed affascinanti che permettono un’esplorazione parallela dell’isola: una sorta di “soft trekking” da fare con un calice in mano.
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