È quanto emerge dall'analisi condotta da Altamedica Medical Center di Roma secondo cui "nel 40% dei soggetti il virus è stato riscontrato nelle feci fino a 40 giorni dopo" la negativizzazione dei tamponi. Giorlandino: "Per prevenire contagi serve anche tampone rettale"
Chi è stato contagiato dal coronavirus, anche in caso di tampone negativizzato, potrebbe essere ancora in grado di infettare. A suggerirlo è un piccolo studio condotto da Altamedica Medical Center di Roma, che ha esaminato il momento di comparsa e scomparsa del virus dall’organismo dei pazienti. Partendo dal presupposto che Covid-19 non si trasmette solo per le vie respiratorie ma anche attraverso le feci, l’indagine condotta su 15 persone con tampone naso-faringeo positivo ha rivelato che: mentre il virus presente nel tratto respiratorio tende a scomparire piuttosto presto, nel 73% dei casi a distanza di due settimane dal primo tampone positivo il virus permane nelle feci nonostante il secondo tampone sia stato negativo; nel 40% dei soggetti il virus è stato riscontrato nelle feci fino a 40 giorni dopo. Lo studio non è ancora pubblicato, ma è stato sottoposto al 'Journal of Virology'.
"Infezioni come queste sono definite a trasmissione oro-fecale, il virus alberga nella bocca e nell’intestino e il contagio avviene attraverso entrambe le vie, sebbene quella fecale sia stata ampiamente sottovalutata - spiega Claudio Giorlandino, ginecologo, direttore sanitario del Gruppo Altamedica e direttore generale dell’Italian College of Fetal Maternal Medicine - Inoltre, come è stato dimostrato, il virus perdura nell’intestino e si elimina nelle feci per diverse settimane dopo che scompare nel tampone, per cui un soggetto ormai ritenuto non infettivo in realtà lo è, ciò significa che i due tamponi negativi e la convalescenza non sono garanzia di assenza di contagiosità. Mentre sarà sufficiente un semplice errore nell’igiene personale a condurre a una reinfezione endogena. A questo punto per prevenire nuovi contagi i soggetti andrebbero sottoposti anche a tampone rettale".
Ma il virus che si riscontra nell’intestino è ancora infettante? "Il riscontro dopo un lasso di tempo piuttosto prolungato depone per il fatto che questo si stia ancora replicando nell’intestino e sia quindi attivo e contagioso - spiega l’esperto - E', infatti, ipotizzabile che, per quelle quote virali che giungono nell’intestino dopo essere passate nel processo digestivo con gli acidi, gli enzimi, probabilmente siano denaturate. È lecito, quindi, ipotizzare che, benché una parte del virus verrà inattivato, una maggiore quota riesca a superare la neutralizzazione dell’acido cloridrico e, giunto nell’intestino tenue o meglio nel crasso, possa continuare a replicarsi. Di questo ne sono prova anche i disturbi intestinali prolungati di soggetti che presentano la malattia".
"Pertanto - osserva ancora Giorlandino - i futuri sforzi per la prevenzione e il controllo del coronavirus devono tenere in considerazione il potenziale di diffusione mediata dalle feci di questo virus. Se il virus liberato all’esterno con le feci, per lungo tempo dopo la scomparsa dall’orofaringe, è ancora infettante, la dinamica della prosecuzione della pandemia appare assumere un profilo molto preoccupante. Anche per ottenere il patentino di immunità completa a questo punto servirà una duplice condizione: presenza di anticorpi di classe G con attenuazione/ scomparsa degli anticorpi di classe M e assenza del virus nelle feci", conclude.