Il punto di vista di Marco Follini per Adnkronos
"Nel gioco di società delle candidature europee il partito democratico è quello che sembra destinato a pagare il pegno più alto. Degli altri infatti si parla poco e con una certa discrezione, quasi ad usare loro una sorta di riguardo. Mentre le scelte su cui in queste ore si arrovellano al Nazareno sono quasi sempre oggetto di uno scrutinio fin troppo malizioso. Non per caso, temo. Il fatto è che il Pd copre fin dalle sue origini l’area politica più estesa. Si cominciò mettendo insieme eredi del Pci e della Dc, quasi a voler riscrivere, o almeno aggiornare, la storia del dopoguerra. Si proseguì affastellando entrate e uscite, e poi rientri, come a dar l’idea di un cantiere politico in perenne movimento. Nel frattempo si sono fatte e disfatte correnti di tutti i tipi. Che esistono anche negli altri partiti, s’intende. Ma che tra i democrat sembrano sempre alludere a fondamentali e assai controverse questioni di principio.
Così oggi il Pd sembra avere ancora un’identità incerta. O almeno troppo multiforme. E ogni candidatura che si affaccia, ogni lista che si forma e poi si rimaneggia, ogni promozione e ogni esclusione finiscono per descrivere un partito alla perenne ricerca di se stesso. Non è la divisione del passato congresso, bene o male superato dagli eventi. Piuttosto è la tendenza a cavalcare ogni argomento, ogni personalità, ogni novità facendone il fulcro di una discussione quasi esistenziale sul proprio carattere politico. Così, se da un lato si schierano candidati ultrapacifisti, altri si premurano di tenere il punto sul sostegno a Kiev.
Se alcuni sono chiamati a tenere alta la tradizione del cattolicesimo democratico subito vi si affiancano i fautori più estremi del radicalismo laico. E se alcuni rivendicano il valore della fatica parlamentare, anche la meno visibile e blasonata, altri pensano piuttosto che solo i nomi di fantasia, i più glamour, i più lontani dalla tradizionale militanza politica possono dare smalto e visibilità alla campagna elettorale. Forse non sarà l’Isola dei famosi, evocata con intelligente malizia da Pina Picerno. Ma almeno rischia di essere una sorta di Festival di Sanremo in edizione minore (e inevitabilmente assai meno seguita). Perfino la povera Ilaria Salis, che non deve essere mai entrata in una sezione del Pd e mai neppure averlo votato in qualche contesa elettorale, per un attimo è sembrata anche lei precettata in una lista, non si sa bene dove.
Ora, tutta questa gran quantità di andirivieni, dentro e fuori dalle liste, con ordini numerici variabili a seconda della giornata (a cominciare da quelli di Elly Schlein, candidata ma verosimilmente non capolista) non sono affatto segno di malcostume. Si può dire anzi che rivelino una sensibilità politica non banale. E però alludono anche, inevitabilmente, a una certa confusione strategica. Poiché appunto ogni nome e ogni numero che viene assegnato sulla lista, facendolo scendere o salire nella griglia di partenza, finiscono per evocare una sorta di dilemma esistenziale. Quasi che il profilo politico del partito venisse continuamente disegnato e ridisegnato in funzione appunto del variare di questi nomi e questi numeri. Il fatto è che un partito può essere molto diviso, e senza nessuno scandalo, solo se è molto unito. Non sembri troppo paradossale. Infatti un partito che ha una chiara idea di sé può aprirsi verso figure anche lontane senza temere di venirne snaturato. E un partito che non si sente troppo in forse, troppo in bilico, troppo fragile, che non ha bisogno cioè di rinnovare ogni giorno la propria immagine e il proprio profilo, può affrontare senza ansie il va e vieni delle liste.
Ma se invece è proprio a quel va e vieni che si affida la definizione più precisa della propria rinnovata carta d’identità si finisce per trasmettere anche al proprio elettorato una fondamentale incertezza su se stessi. Quasi fosse ancora un partito in cerca d’autore. Post scriptum. E forse anche la triste parabola dell’ex campo largo, giunta al suo epilogo in queste ore, altro non è che l’ultima propaggine di questa confusione strategica. (di Marco Follini)