Bertolotti (Ispi): "Gli incubi si chiamano 'close combat' e 'urban warfare'. La dimensione sotterranea della Striscia è l'asso nella manica di Hamas'. Attenti al rischio 'escalation orizzontale'".
"Gaza è una trappola", ma non c'è alternativa all'operazione dentro la Striscia. L'incubo israeliano si chiama 'close combat'. E lo scenario peggiore si concretizza nella "dimensione sotterranea" della Striscia, in quel labirinto di tunnel che sono l'obiettivo dei raid israeliani e l'"asso nella manica" di Hamas mentre l'opinione pubblica israeliana si aspetta il 'mission accomplished'. Ma c'è anche il rischio "escalation orizzontale". Claudio Bertolotti, analista dell'Ispi esperto di Medio Oriente e Nord Africa, di radicalizzazione e terrorismo internazionale e direttore di Start InSight, ragiona con l'Adnkronos mentre la crisi in Medio Oriente, scatenata dal terribile attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele, non sembra destinata a esaurirsi in tempi brevi e anzi si teme un allargamento del conflitto.
Dopo le stragi di due settimane fa in Israele, per giorni il ministro della Difesa Yoav Gallant e i generali hanno parlato di un'operazione imminente dentro la Striscia, ma ieri la radio militare israeliana ha annunciato il rinvio dell'operazione di terra. E circolano voci, smentite ufficialmente, di generali in rotta con il premier Benjamin Netanyahu, mentre proseguono i raid delle forze israeliane sull'enclave palestinese, controllata da Hamas e con circa 2,2 milioni di abitanti.
Bertolotti è convinto che "non esista un'opzione alternativa dal punto di vista politico" all'operazione dentro la Striscia, ritiene sia una "opzione inevitabile", perché "non agire con forza" nei confronti di Hamas dopo quel brutale attacco significherebbe dire che qualunque azione terroristica di fondo passa senza grandi conseguenze.
Nella 'geografia' di Gaza, "la migliore possibilità che ha Hamas per infliggere il maggior numero di danni alle forze israeliane è obbligare Israele al 'close combat', il combattimento ravvicinato, che inserito in un ambiente urbano ('urban warfare') è lo scenario peggiore che tutti i pianificatori militari cercano di evitare nell'impiego delle truppe", spiega Bertolotti. E quando lo si deve fare "si mette in conto un numero di perdite elevato".
Il problema a Gaza, prosegue, è che "la dimensione sotterranea è conosciuta solo in parte ed è l'asso nella manica di Hamas" perché consente al gruppo di "muoversi sul campo di battaglia comparendo o scomparendo dal tiro degli israeliani e ricomparendo in aree che si pensavano bonificate".
Sul campo, osserva, sono due le "opzioni" che Israele potrebbe perseguire. La prima, "possibile, ma al momento poco probabile", è quella di "un'operazione basata su una serie di operazioni congiunte puntiformi per l'eliminazione dei leader di qualunque livello di Hamas", con una "cornice di sicurezza consistente che renda impossibile entrare e uscire dalla Striscia senza essere sottoposti al controllo delle Forze Armate israeliane". Una 'strada', osserva, che "da un lato richiede grande capacità di controllo del territorio", anche con l'impiego di droni, "ma espone gli operatori a rischi estremamente elevati".
L'opzione "più probabile" prevede, invece, un "intervento prevalentemente convenzionale, quindi con l'impiego di forze di manovra, l'esercito supportato dal fuoco dell'artiglieria e quindi carri armati". I carri armati, a un certo punto dell'offensiva, "avanzerebbero insieme a truppe di terra per garantire supporto di fuoco ravvicinato", continua l'esperto nella sua analisi. Ma la "criticità è che i mezzi corazzati in area urbana sono estremamente vulnerabili" e questo significa "livelli elevati di perdite di equipaggiamenti militare" e che il contesto diventerebbe di "guerriglia urbana" con un "tasso di rischio elevato" per i militari e quindi un maggior numero di caduti. "Quanti morti è disposto ad accettare Israele per eliminare Hamas?". E', osserva, "una scelta politica".
E i 'ritardi' nell'operazione di terra nella Striscia? "In termini di efficacia non si perde", osserva Bertolotti, spiegando come "si dia la possibilità all'intelligence di mappare in modo estremamente dettagliato la situazione all'interno di Gaza" e anche di "trovare riscontri". C'è poi l'aspetto logistico, che è quello "prevalente" perché - sottolinea - "la tattica e la strategia sono importanti, ma senza un adeguato supporto logistico non si va oltre il secondo giorno di guerra".
"Un'operazione di questo tipo richiede un retrofronte in territorio israeliano che dia - spiega - la possibilità di inviare personale, ricevere personale che proviene dal fronte inviandone altro 'fresco'". Servono "disponibilità" di uomini e capacità di rifornire contemporaneamente equipaggiamenti, munizioni e carburante per le truppe impiegate nella Striscia e "il tempo dà la possibilità di organizzare sempre al meglio i centri logistici avanzati che sono già previsti dalla dottrina militare israeliana, ma che col tempo si ha la possibilità di rafforzare e migliorare".
Così, se il rinvio sul "fronte" porta "benefici" perché "Gaza è sotto assedio e si dà la possibilità di rafforzare" il blocco, dal punto di vista internazionale potrebbe esserci "un indebolimento nei rapporti con i Paesi alleati che, condizionati da opinioni pubbliche altalenanti, potrebbero far muovere i governi verso un sostegno non incondizionato ai piani israeliani". E, osserva, se a "livello teorico" militari e riservisti potrebbero essere tenuti mobilitati a ridosso di Gaza a lungo, quello che è "determinante è l'aspetto politico" con un Israele ferito ma in cui "c'è un governo di unità nazionale", teoricamente "un punto a favore", con "la componente di estrema destra, la più pericolosa, di fatto relegata a ruolo non determinante".
Un Israele su cui pesa la 'minaccia iraniana'. "Dal punto di vista emotivo c'è il rischio di dinamiche che possano trascinare l'Iran in una guerra che non vuole - continua Bertolotti nella sua analisi - L'obiettivo dell'Iran è l'indebolimento di Israele" e la Repubblica Islamica (accusata di sostenere Hamas, così come gli Hezbollah libanesi e gli Houthi in Yemen) "sta operando per aprire due eventuali fronti". Uno è quello libanese, nella "parte di territorio controllato da Hezbollah da cui vengono lanciati attacchi contro il territorio israeliano". E l'esercito israeliano qui è già "impegnato" per "contenere la minaccia e prevenirla".
L'altro fronte, che "potrebbe diventare un secondo fronte per Israele", è quello siriano, perché attraverso il Paese arabo "l'Iran potrebbe spingere le milizie sciite o eventualmente anche unità dell'esercito di Bashar al-Assad ad agire direttamente nei confronti di Israele". Così Israele attacca le infrastrutture logistiche in Siria. Tutto, conclude, "rientra perfettamente nella dottrina strategica del 2015 tuttora in vigore delle Forze Armate israeliane che prevedono come scenario peggiore quello di una escalation orizzontale". L'allargamento del conflitto "a tutti gli attori regionali" con "l'apertura di tre, quattro fronti": Gaza con Hamas, Hezbollah in Libano, la Siria "come Stato" e allo stesso livello, ancora "lo scenario peggiore", l'Iran.