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L'allarme degli interpreti afghani: "Per anni accanto alla Nato, ora esposti alla minaccia dei Talebani"

L'allarme degli interpreti afghani:
30 dicembre 2020 | 12.54
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"Siamo in un momento cruciale in cui gli alleati della Nato hanno gradualmente lasciato l'Afghanistan. Abbiamo dedicato le nostre vite al servizio della Nato nelle missioni Isaf e Rsm e ora ci sentiamo abbandonati". E' il grido di allarme che gli interpreti afghani, "i soldati disarmati", congedati dalla Difesa italiana il 29 giugno scorso, lanciano all'Adnkronos. Sono stati lasciati, denunciano, "in balia" di chi li considera spie degli infedeli, collaborazionisti da sacrificare, e oggi non si sentono sicuri - ormai disoccupati - da soli nel loro Paese.

S.S. ha 31 anni e lavora come interprete al fianco dei nostri soldati in Afghanistan dal 2010. Nasconde il proprio lavoro perfino ai suoi familiari, così come i suoi colleghi, perennemente con la paura di essere ammazzato. La memoria di Abdul Rasool Ghazizadeh, ucciso nel 2017 a Herat mentre rientrava a casa dal lavoro, è ancora fresca. I carabinieri lo avevano soprannominato Gennaro, "fedele e capace interprete, un fratello" freddato con un colpo al cuore nella sua terra. "I gruppi talebani e anti coalizione sono le minacce più pericolose per noi e le nostre famiglie - racconta l'interprete - considerati obiettivi 'morbidi' e facili. I talebani hanno recentemente aumentato i loro attacchi contro ospedali, scuole, università e moschee. Non è sicuro da nessuna parte qui, membri del governo, giornalisti e interpreti vengono rapiti, terrorizzati. La nostra vita in Afghanistan è un incubo".

Il tema, assicurano dalla Difesa italiana è "da sempre tenuto in grande considerazione". Per gli attuali collaboratori afghani, "nel pieno rispetto della legge, è allo studio un nuovo programma di protezione, che sarà realizzato concordemente all'evoluzione della presenza militare italiana nel paese asiatico". Gli interpreti afghani sottolineano i saldi legami di collaborazione con le forze Nato: "La maggior parte di noi ha lavorato nel gruppo delle Task Forces, negli Operational Mentoring Liaison Teams, nei Military Advisory Teams, nei Police Advisory Teams, nell'Operation and Coordination Centers – Regional fianco a fianco dei nostri fratelli e sorelle militari italiani per più di un decennio nelle province di Herat, Farah, Ghor e Badghis nell'ovest di Afghanistan. In questo lungo periodo abbiamo partecipato a tante operazioni militari, montato e smontato pattuglie, fatto consegne umanitarie, incontri e scontri nei quali abbiamo affrontato esplosioni, imboscate, attacchi mortali, e colpi di pistola. Noi siamo persone per bene, abbiamo studiato in diverse università. Non siamo come gli immigrati che vengono in Italia dall'Africa, per anni e anni abbiamo visto la morte in faccia accanto ai soldati italiani. Oggi per noi restare nel nostro Paese comporta un rischio enorme". (di Silvia Mancinelli)

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