di Francesco Saita
Un sequestro ‘diverso’, che l’Italia di quegli anni, i ’70, in cui i rapimenti per estorsione erano all’ordine del giorno, aprendo quasi tutti i giorni i telegiornali, non capì subito. "I miei rapitori mi dissero, dopo un paio di giorni, che mi avevano preso per ottenere un riscatto in denaro", racconta, in una intervista all’AdnKronos, Guido De Martino, rapito a Napoli il 5 aprile del 1977 e tenuto segregato per 40 giorni. Ma lui, figlio di uno dei grandi leader del Psi, quel Francesco De Martino, più volte segretario del partito di Nenni e in pole per arrivare al Quirinale, era finito al centro di una vicenda in cui la criminalità non giocava il ruolo principale.
"L’unica ragione, non solo logica, ma come risultante delle indagini giudiziarie, è che mi avevano preso per colpire mio padre per il suo indirizzo politico che tendeva ad associare insieme alla Dc e al Psi le masse popolari e lavoratrici, rappresentate dal Pci, nella direzione politica e di governo del paese", dice Guido de Martino, esattamente 40 anni dopo il sequestro.
"Mio padre, ben prima di Berlinguer e poi di Moro, con le loro successive politiche del compromesso storico e della strategia morotea dell’attenzione, si batteva per quelli che chiamava ‘equilibri politici più avanzati’", spiega quello che allora era un trentenne dirigente giovanile socialista. Colpire il figlio dell’uomo politico che stava lavorando per una democrazia italiana aperta al partito comunista, fu una cosa che ebbe enormi conseguenze politiche.
In quei giorni drammatici, lo stesso Nenni chiarì a Craxi il significato del rapimento: "Ci hanno messo in questa difficile situazione – disse il vecchio capo socialista. Se cediamo alla richiesta di riscatto criticheranno la mancanza di senso dello Stato, se resistiamo e rifiutiamo qualsiasi trattativa diranno che per motivo di avanzamento di rango politico i socialisti e De Martino sono disposti a sacrificare la vita di un figlio. Così anche a Francesco è stata sbarrata la strada per il Quirinale".
De Martino ricorda il suo incontro, una volta liberato, con Sandro Pertini. "Parlò di ‘covi di vipere’ nei quali si era organizzata ‘l’infamia’ contro mio padre, scagliandosi contro ‘gli oscuri meandri’ del sottobosco politico". Giulio Andreotti "molto anni dopo, in termini molto più misurati, ed anche da interpretare - ricorda ancora De Martino - parlò invece di ‘forze occulte, sempre in qualche modo operanti (e quali siano solo Dio lo sa) agirono nel modo più perfido contro De Martino, con il rapimento del figlio. Quanto accadde a Moro fu ancora più spietato, ma certo il rapimento del figlio di Francesco De Martino fu evento duro perché mirava a colpire la famiglia’". ‘La politica dovrebbe invece conservare dei margini di rispetto per cose che non c’entrano direttamente’, concluse Andreotti".
"Emerse – dice De Martino parlando dei suoi sequestratori - che essi avevano agito su istigazione di Vincenzo Tene, un saltuario dipendente portuale e fraquentatore episodico della Federazione napoletana del Psi, che io dirigevo". "Quando fu arrestato il Tene dette versioni diverse dell’accaduto, indicando, alla fine, in un esponente locale della Dc, un ex sindaco di Boscoreale, un popoloso comune vesuviano, colui che lo aveva assoldato in cambio di un posto di lavoro".
Quell’uomo a un certo punto chiese perdono ai De Martino: "Mi consultai con mio padre e decidemmo, come feci, di rispondere a costui, rinchiuso nel carcere di Procida, dicendogli di essere pronto a concedere il perdono, ma a condizione di rivelare chi lo avesse assoldato per la criminale impresa".
"Ma la risposta non mi è mai pervenuta, perché credo che il segreto di Tene era inconfessabile, perché copriva potenze incombenti e indicibili. Un mistero, uno dei tanti della tormentata storia dei terrorismi italiani", conclude Guido De Martino.