Per Matteo Flora, scagliarsi contro il motore di ricerca è un tassello della sua campagna di influenza politica
Google ha davvero “oscurato” il candidato nonché ex presidente Donald Trump? Questa è l’accusa di Elon Musk, ceo di Tesla, SpaceX e di X.com, l’ex Twitter che ha acquistato per 44 miliardi di dollari e che è diventata la piattaforma dei suoi attacchi e delle sue campagne politiche. Oggi Musk ha pubblicato lo screenshot di una ricerca Google in cui chi prova a scrivere “President Donald” ottiene come suggerimenti “President Ronald Reagan” o “President Donald Duck”, ovvero Paperino. L’Adnkronos ha chiesto a Matteo Flora, imprenditore e docente di Sicurezza delle AI all’ESE se davvero il motore di ricerca stia compiendo una ‘interferenza elettorale’ (così l’ha definita Musk).
“Ho fatto una prova usando un VPN, cioè fingendo di collegarmi da Austin, Texas, e il primo risultato è quello ‘istituzionale’, dunque Donald Trump. Ma credo che sicuramente qualcuno sia intervenuto, dopo l’accusa di Musk, a ripristinare un primo risultato corretto. Quello che è più strano è vedere il secondo risultato: anche a me suggerisce Ronald Reagan, come se la categoria di chi cerca il defunto presidente repubblicano e sbaglia il suo nome di battesimo sia più ampia di chi cerca “President Trump shooting” (sparatoria) o “President Trump indictment” (incriminazione). L’attentato e i suoi processi penali sono decisamente più recenti e rilevanti, bizzarro che Google restituisca un errore di battitura così in alto”.
Le piattaforme non sono ‘neutre’, e Google lo scorso febbraio ha dovuto sospendere la creazione di immagini del suo chatbot Gemini perché stava ‘esagerando’ nell’offrire risultati troppo inclusivi (gerarchi nazisti di pelle nera, imperatori romani con tratti somatici dei nativi americani, donne indiane scolpite su Mount Rushmore). Ci sono segnali che le grandi aziende tecnologiche stanno orientando i loro algoritmi a favore di un candidato o di un altro? “No, al momento non ho registrato nessun movimento in questo senso”, spiega Flora, “anche perché sarebbe un grosso rischio per loro. Al momento sono protette dalla Section 230, la norma che ha quasi 30 anni e che permette alle piattaforme di non essere considerate responsabili per i contenuti che ospitano. Se dovessero agire come editori, con mosse politiche ‘pesanti’ come oscurare un candidato, perderebbero questa tutela e si esporrebbero a contenziosi miliardari. Non è un caso se alla fine hanno tutte sbloccato Donald Trump, che era stato bandito dopo i fatti del 6 gennaio 2021”.
Flora nelle sue lezioni all’università insegna “l’allineamento” dell’intelligenza artificiale, cioè quel processo per cui gli obiettivi del sistema di IA devono corrispondere a quelli dei suoi progettisti, degli utenti o a valori ampiamente condivisi, a standard etici oggettivi o alle intenzioni che i progettisti avrebbero se fossero più “informati e illuminati”. E questo ovviamente è un terreno scivoloso, con la Silicon Valley che incarna una serie di valori non per forza condivisi dal resto degli Stati Uniti (o del mondo). Ma Flora legge le battaglie anti-woke di Elon Musk, che nell’ultima settimana si è scagliato contro la sua stessa figlia transgender, con una chiave decisamente più prosaica. “Il ceo di Tesla dà di sé l’immagine di un paladino libertario, ma in realtà il grosso dei suoi affari dipendono dai sussidi del governo federale americano, o dagli sgravi fiscali promessi dai singoli Stati. Sta spostando la sede delle sue aziende in Texas, ma mica per ragioni ideologiche, è solo convenienza. SpaceX vive di contratti con la Nasa, Tesla s’impenna o crolla in borsa in base agli investimenti green del governo, o in funzione dei dazi sui veicoli elettrici cinesi. Il suo obiettivo, ed è stato chiaro con l’acquisizione a prezzi folli di Twitter, è di condizionare il dibattito politico, perché dalla politica deriva buona parte del suo fatturato. I ricavi pubblicitari di X sono sprofondati, ma lui non l’ha comprata mica per gli utili (che erano scarsi pure prima), è il suo strumento di pressione, vuole diventare imprescindibile per il sistema di potere americano. Non si è inventato lui questa strategia, è la stessa di Murdoch, Bezos o di Berlusconi prima della discesa in campo”.
Dietro all'attacco potrebbero esserci anche le ruggini tra Elon Musk e Larry Page, co-fondatore di Google e un tempo suo grande amico. "In generale, a Musk brucia ancora per quanto è successo con OpenAI, di cui era uno dei fondatori e da cui è uscito sbattendo la porta prima del successo planetario. Page è stato richiamato in Google per gestire lo sviluppo dell'Intelligenza Artificiale, ed è dunque un ennesimo rivale di Musk in questo campo, in cui si è buttato con Grok, un'alternativa a ChatGpt e Gemini. Più indebolisce i concorrenti, più spazio può guadagnare con il suo prodotto. Difficile trovare oggettività in questi attacchi".
Le critiche a “X” non mancano: chi la considera un megafono dei trumpiani, chi rimpiange quella capacità di far scoprire voci fuori dalle rispettive bolle, chi si lamenta di avere un feed pieno di contenuti discutibili. Eppure resta ancora centrale: Joe Biden l’ha usata per annunciare il suo ritiro dalla corsa, e lo stesso hanno fatto i coniugi Obama per pubblicare (prima dell’alba, con un post programmato) i video di sostegno per Kamala Harris. “Non c’è niente da fare, resta la piattaforma più letta da giornalisti, politici e lobbisti, anche perché garantisce piena disintermediazione. Un post lo controlli completamente, un’intervista a un grande media subirà sempre una qualche forma di intervento editoriale”. E i concorrenti? “Threads, l’alternativa costruita da Meta, sta andando meglio di quanto pensassi, ma non è riuscita a detronizzare il vecchio Twitter nella rilevanza politica. È popolata da chi non ama “X” e da chi non ha mai usato Twitter ma aveva un account Instagram, infatti spesso si incontrano i pensieri di bellissime influencer in grado di influenzare il successo di marchi più che di un candidato. TikTok sarebbe un ottimo strumento per raggiungere i più giovani, ma i politici occidentali lo usano poco o nulla per ragioni geopolitiche (è cinese e il Congresso americano vuole forzarne la vendita)”.