Ma per il docente della Luiss l'estremismo del tycoon può spaventare elettorato generale e favorire Biden a novembre. Definisce poi "destabilizzanti" le dichiarazioni che fa su disimpegno Usa per Nato e difesa Europa, ma ricorda: "la Ue ha capacità tecnica difesa ma non volontà politica"
Sono appena iniziate, ma le primarie repubblicane sono già arrivate "in modo inconsueto" con il voto di domani in New Hampshire "ad un punto di svolta". Così Gregory Alegi, docente di Storia e Politica degli Usa all'Università Luiss, spiega all'Adnkronos che - ora che le primarie si sono ridotte ad un duello tra Donald Trump e Nikki Haley - "se la repubblicana verrà battuta in un territorio sulla carta molto favorevole", come lo stato del New England dove l'elettorato non ha posizioni estremiste, "è lecito aspettarsi per lei grandissime difficoltà nel resto degli Stati Uniti e quindi la sconfitta".
Ma "paradossalmente" una così anticipata e netta vittoria di Trump della nuova nomination potrebbe non essere una notizia negativa per Joe Biden e i democratici: come spesso accade negli Stati Uniti infatti "le primarie tendono a premiare i candidati identitari, non i candidati appetibili a tutti, quindi Trump è vero che piace ai repubblicani però incontra sempre difficoltà a livello nazionale".
Non a caso, i sondaggi indicano che Haley, che è su posizioni più moderate ed appetibili per gli indipendenti, "qualora candidata vincerebbe a mani basse con Biden, mentre Biden-Trump è una competizione ad armi pari", a prescindere dal fatto che ora ci sono 5-6 punti di vantaggi per Trump e il basso tasso di popolarità del presidente "che ancora non ha iniziato a fare campagna elettorale", vera e propria.
"L'estremismo di Trump, che traspare da dichiarazioni paradossali, spaventa, paradossalmente la vittoria a man bassa per Trump è un pessimo segnale in vista di novembre quando si dovrà scontrare con Biden", continua il professore affermando che "ancora una volta il presidente, che più un tecnico che un carismatico, potrebbe intercettare il voto di chi ha paura di un nuovo quadriennio di Trump".
La nomination di Trump disinnescherebbe un'altra mina pericolosa per l'80enne Biden, quella dell'età: "Sarebbe stata più chiaro se il candidato repubblicano fosse stato qualcun altro - spiega Alegi - Trump ha 77 anni e comincia visibilmente a perdere colpi, scambia nomi, non ricorda circostanze cosa che in una persona che già prima era predisposta all'esagerazione o alla bugia è un problema serio".
Nonostante la carta dell'età, comunque, tutti gli altri repubblicani - a parte Haley che di anni ne ha 52 e propone test cognitivi per tutti i candidati over 75 - si sono ritirati, ultimo tra i quali, ieri, Ron DeSantis, il governatore della Florida che quest'estate sembrava destinato ad essere l'avversario più temibile di Trump. La sua uscita di scena è "un segnale molto chiaro perché sia DeSantis che Rasmaswamy - conclude Aelgi riferendosi al miliardario di origine indiana che si è ritirato dopo i caucus dell'Iowa - correvano come dei Trump 2.0, senza piattaforma ma con solo 20-30 anni in meno, in politica l'elettore preferisce l'originale al clone".
L'ipotesi di una candidatura di Trump, ed un suo eventuale ritorno alla Casa Bianca, stanno facendo già discutere in Europa soprattutto per le dichiarazioni fa di disimpegno, in caso di suo ritorno nei confronti della Nato e della difesa dell'Europa, che sono, "come quelle su Taiwan", sono "indubbiamente destabilizzanti perché mandano messaggi ai revisionisti dell'ordine mondiale", aggiunge il docente della Luiss, sottolineando che comunque queste rivelano allo stesso tempo "una totale miopia" dell'ex presidente che "è ben chiara alla comunità che si occupa di affari internazionali sia in Europa che negli Stati Uniti".
Una miopia perché "il rafforzamento della difesa europea chiesto da Trump in termini economici non può avvenire solo dal punto di vista tecnico, perché necessariamente si porta dietro questioni di impiego che necessariamente si portano dietro delle decisioni politiche, che necessariamente si traducono in un rafforzamento dell'identità europea come competitore e non come alleato degli Usa". Per Alegi è importante ricordare che a differenza di "quello che pensano molti, la difesa comune europea non è un problema di tipologia di carri armati, ma della volontà comune di usarli: dal punto di visto pratico, dei sistemi d'arma, l'Europa è assolutamente allo stesso livello degli Usa e quello che succede in Ucraina ce lo dimostra, i sistemi europei funzionano benissimo".
"L'Europa è sicuramente in grado di difendersi da sola sotto un profilo tecnico - continua - quello che preoccupa molto è la mancanza di unità politica. Il nostro problema non sono i carri armati, il problema è se si vuole impiegarli e, come diceva l'indimenticabile Henry Kissinger "qual è il numero di telefono dell'Europa?, l'incapacità dell'Europa di parlare con una voce sola".
Tornando invece al rischio di un disimpegno americano in Europa, ventilato da Trump, il professore spiega che "il contributo di difesa Usa nell'Europa è in ambiti molto specifici, uno, extrema ratio, l'ombrello atomico, uno più quotidiano con le informazioni e sistemi cyber, dai satelliti ai computer", sottolineando che "un conto è dire non mando i marine in Europa, un altro è dire non condividere più le informazioni. Nel secondo caso il costo è piuttosto basso, anche dal punto di vista politico essendo sistemi invisibili". Piuttosto, aggiunge, dal punto di vista ideale, "se ci trovassimo ad un livello da 1939, morire per Danzica, la mancanza di stimolo americano, di direzione americana potrebbe essere grave più grave della mancanza dei materiali".
"Vedremo come andrà a finire - prosegue Alegi per il quale, se a livello di primarie sarà decisivo il risultato del duello ormai rimasto a due tra Trump e Nikki Haley domani in New Hampshire, per le elezioni di novembre la partita è ancora tutta da giocare - il quadriennio di Trump è stato dannosissimo per la posizione degli Stati Uniti nel mondo".
Questo ha portato Washington ad un "isolamento totale", che "in parte spiega perché la Russia fosse convinta di poter invadere l'Ucraina senza una reazione americana: scommettevano sul fatto che gli Usa non avrebbero potuto raccogliere il consenso, formare una coalizione". Mentre invece su questo fronte Joe Biden ha incassato "uno straordinario successo".
A fronte di questo la nuova ascesa politica di Trump può essere considerata sintomo di una sorta di malattia dell'Occidente e dei suoi valori? "Assolutamente sì, non ci scordiamo della grande lezione di Popper secondo il quale le regole e i privilegi della democrazia non si applicano a coloro che vogliono usarli per demolire la democrazia stessa", risponde Alegi ricordando il ruolo di Trump nell'assalto al Congresso, in cui si è passati dall'espressione della critica "all'azione violenta che per definizione è antidemocratica".
Non bisogna dimenticare, conclude, che già "nell'estate del 2017 Trump normalizzò le manifestazione violente razziste a Charleston dicendo che ci sono brave persone da entrambe le parti, ma questo non è vero, esistono valori di riferimento: lo sdoganamento di certi comportamenti è quello che quattro anni dopo porta all'assalto al Congresso, a rifiutare il risultato democratico delle elezioni".