Bertolotti (Ispi): "Anche la situazione politica rimane instabile. Russia, Cina e Iran cercano di aumentare la loro influenza, resta forte quella degli Usa"
Passati 20 anni dall'inizio dalle operazioni Usa in Iraq, il Paese che fu di Saddam Hussein è "in difficoltà, ma ci sono anche segnali di progresso" e se "la situazione politica e di sicurezza rimane instabile" al contempo "ci sono sforzi in corso per migliorare la situazione". Ne parla con l'Adnkronos Claudio Bertolotti, analista dell'Ispi e direttore di Start InSight, che ricorda quando "nel 2003 fu impegnato in Afghanistan nell'operazione Enduring Freedom per rimpiazzare i militari statunitensi destinati all'imminente invasione dell'Iraq", una "delle guerre più controverse e disastrose degli ultimi decenni" che ha segnato "un punto di rottura sul piano delle relazioni internazionali e una svolta su quello degli equilibri geopolitici a livello regionale e globale", un "fatto storico che ha determinato l'impossibilità di ritorno all'ordine internazionale precedente".
Oggi, spiega, sul fronte della sicurezza l'Iraq "si trova ancora sotto la minaccia del terrorismo e delle milizie armate" e "sebbene lo Stato Islamico sia stato sconfitto in gran parte del Paese" gli attacchi terroristici sono ancora realtà e "le milizie armate filo-iraniane presenti rappresentano una minaccia per la stabilità". Sul piano politico, prosegue nella sua analisi, il Paese "ha affrontato numerose crisi, compresa la recente crisi costituzionale del 2019-2020, caratterizzata da proteste popolari e dimissioni di funzionari governativi" e a complicare il quadro ci sono "la divisione tra le fazioni politiche e le tensioni etniche e religiose". A questo si aggiungono, continua, "una serie di sfide economiche e sociali affrontate dall'Iraq, incluse la carenza di servizi essenziali, la disoccupazione e la corruzione". Ma, riconosce Bertolotti, il Paese ha anche "fatto progressi in alcuni settori, come l'energia, e sta cercando di attirare investimenti stranieri per stimolare la crescita economica".
Non va sottovalutata, osserva, "l'assertività di tre importanti attori, Russia, Cina e Iran, che cercano di aumentare la loro influenza in Iraq". La Russia, dopo più di un anno di guerra in Ucraina, "sta cercando di espandere la sua presenza economica in Iraq, soprattutto nel settore energetico", e - evidenzia Bertolotti - "ha stretto accordi con il governo iracheno per l'estrazione di petrolio e gas e fornito assistenza militare sotto forma di armi e consiglieri militari".
E, rimarca, "anche la Cina sta cercando di espandere la propria influenza economica e commerciale, offrendo investimenti e assistenza tecnica in diversi settori". Pechino, ricorda l'analista, "ha stretto accordi energetici con l'Iraq e di recente ha firmato un accordo per costruire una linea ferroviaria ad alta velocità tra Baghdad e Bassora".
Poi c'è l'Iran che, spiega Bertolotti, "ha mantenuto una forte presenza politica, economica e militare e ha sostenuto attivamente il governo iracheno nella lotta contro l'Isis poi evoluto nel fenomeno 'Stato islamico' dal 2014". Teheran, prosegue, ha anche "stretto accordi commerciali e di sicurezza con il governo iracheno e ha supportato diverse milizie sciite in Iraq". In generale, osserva, "i tre Paesi cercano di aumentare la loro influenza attraverso investimenti, aiuti economici e militari e accordi commerciali", ma al contempo "la presenza e l'influenza degli Stati Uniti in Iraq rimane forte e gli sforzi di Russia, Cina e Iran potrebbero essere ostacolati da una crescente opposizione irachena alle ingerenze straniere".
La guerra in Iraq, iniziata 20 anni fa, ha portato - secondo Bertolotti - a "cambiamenti irreversibili tanto da determinare ancora oggi i ritmi della politica regionale e le scelte in campo internazionale".
L'analista parla dei "tre attori determinanti" - Stati Uniti, Russia e Cina - della "conflittualità competitiva tra Arabia Saudita e Iran", che di recente proprio con la mediazione del gigante asiatico hanno stretto un accordo per la ripresa delle relazioni, e delle "dinamiche di allineamento degli altri attori minori a cui altri attori sono obbligati ad adattarsi". La guerra in Iraq, evidenzia, ha poi avuto anche un "ruolo di influenza, non marginale, sui fenomeni rivoluzionari e insurrezionali delle cosiddette Primavere arabe" del 2011, ha "rappresentato un punto di rottura nell'ordine internazionale portando a rapidi cambiamenti negli equilibri di potere regionali che hanno costretto alla diversificazione delle alleanze e dei quadri istituzionali". Bertolotti pensa alla "dipendenza dalla Cina e dalla Russia per le forniture di vaccini durante la pandemia di Covid-19" e alle "nuove relazioni internazionali, come quella tra Iran e Russia e quella tra gli Stati arabi e Israele" con gli accordi di Abramo del 2020. E, rileva, "la guerra in Ucraina ha dimostrato come gli Stati arabi filo-occidentali si siano astenuti dal criticare l'invasione russa, mentre altri si sono avvicinati a Mosca".
Passati 20 anni, ricordiamo un anniversario scomodo? "Sì - risponde Bertolotti - un anniversario scomodo per l'Occidente per diverse ragioni". A cominciare dal fatto che è "una guerra in cui gli effetti negativi hanno superato di gran lunga qualsiasi possibile risultato positivo". Tra le ragioni l'analista indica quella che oggi è la "consapevolezza di una ricercata manipolazione dell'opinione pubblica volta a convincerla della necessità e della bontà dell'intervento militare" perché - dice - "ricordiamo tutti l'imbarazzo del segretario di Stato Colin Powel davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite", la provetta, e perché "l'invio delle truppe statunitensi in Iraq si basava principalmente su informazioni errate o addirittura inventate sulle armi di distruzione di massa possedute dal regime di Saddam Hussein". E anche per "i costi della guerra", un "costo enorme in termini di vite umane e risorse finanziarie" dopo "l'impegno militare statunitense iniziato malamente dall'Amministrazione Bush nel 2003 e concluso in maniera disastrosa dall'Amministrazione Obama nel 2010".
Secondo alcune stime, evidenzia, "la guerra ha causato la morte di oltre 100.000 civili iracheni e più di 4.400 militari americani, oltre a un costo stimato di 1,7 trilioni di dollari". E un'altra ragione va individuata, prosegue l'esperto, nell' "avvio di un periodo, ancora in corso, di instabilità regionale" dal momento che "l'invasione dell'Iraq ha destabilizzato l'intera regione del Medio Oriente, creando un vuoto di potere che ha permesso la nascita di gruppi estremisti come lo Stato islamico", innescando al contempo "tensioni tra i Paesi dell'Occidente e quelli musulmani, alimentando il sentimento anti-occidentale in molte parti del mondo".
Infine, un'ulteriore ragione sta nei "dubbi sulla legittimità dell'azione militare", su una guerra che "ha diviso l'opinione pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa" perché "l'assenza di un mandato del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e la mancanza di una minaccia imminente alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno portato molti a chiedere il perché dell'avvio della guerra". E "ancora oggi - conclude - la guerra in Iraq continua a suscitare dibattiti sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e sulla giustificazione delle azioni militari unilaterali".