
Per l’imputato argentino i pm hanno chiesto la condanna all’ergastolo con il riconoscimento del metodo mafioso
A poco più di due anni dall’avvio del processo oggi nell’aula bunker di Rebibbia è attesa la sentenza del processo per l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, leader degli Irriducibili, noto come ‘Diabolik’, ucciso con un colpo di pistola alla testa il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti a Roma. Per quel delitto, che come scritto dai magistrati ha dato il via a "una lunga scia di fatti di sangue", è imputato l'argentino Raul Esteban Calderon, la cui vera identità, secondo l’accusa, è quella di Gustavo Alejandro Musumeci. Piscitelli viene ucciso poco prima delle 19 mentre è seduto su una panchina: un uomo in tenuta da corsa arriva alle sue spalle, impugnando una pistola e gli spara alla testa a distanza ravvicinata. ‘Diabolik’ muore sul colpo mentre il killer fugge a piedi.
La zona viene battuta alla ricerca di tutti gli elementi utili a rintracciare il sicario. Vengono individuate e visionate le telecamere che possono aver ripreso la fuga dell'omicida e vengono sentiti i primi testimoni. E dopo due anni e mezzo di indagini, portate avanti nel più stretto riserbo sotto il coordinamento dei magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, si arriva all’arresto dell’argentino, accusato di omicidio aggravato dal metodo mafioso e detenzione abusiva di armi. Il 23 febbraio 2023 si apre così il processo davanti ai giudici della Terza Corte di Assise di Roma presieduta da Antonella Capri. Oltre quaranta udienze, vengono chiamati decine di testimoni, mentre Calderon segue il processo in videocollegamento dal carcere di Larino. In aula viene mostrato il video del delitto e la fuga del killer, con l’analisi dei singoli frame, e vengono ascoltati gli investigatori che hanno portato avanti le indagini e che hanno ricostruito davanti ai giudici le diverse fasi: dalla prima richiesta di intervento al numero unico del 7 agosto 2019 negli istanti successivi al delitto, la descrizione del killer in tenuta da jogging, all’arrivo del personale del 118 nel parco che ha constatato la morte di Piscitelli, fino ai rilievi sul luogo dell’omicidio da parte della Scientifica e all’acquisizione delle prime testimonianze e degli impianti di videosorveglianza presenti nella zona.
I video, acquisiti da due attività commerciali di viale Tito Labieno e di piazza di Cinecittà, mostrano il passaggio dello scooter utilizzato per il delitto mentre la telecamera posizionata sul terrazzo di via Lemonia riprende le fasi dell’omicidio: si vede il killer dirigersi verso la panchina dove Piscitelli è seduto insieme al suo autista, l’esplosione del colpo mortale e la fuga. Un video, che insieme a quello di viale Tito Labieno, mostra anche la copertura, una fasciatura sulla gamba destra del killer mentre scappa sullo scooter con un complice. In aula viene sentito anche l’autista cubano che accompagnava il leader degli Irriducibili. ‘’Fabrizio era tranquillissimo. Ci siamo seduti sulla panchina con le spalle al parco e la strada davanti, lui era alla mia destra e faceva telefonate. A un certo punto ho sentito tre passi che si avvicinano da dietro, di una persona che corre, e ho visto la pistola alla testa di Fabrizio. Poi il colpo esploso, un solo colpo. Mi e’ caduto il mondo addosso, nessuno si aspettava una cosa del genere” ha detto in aula Eliobe Creagh Gomez, raccontando gli ultimi istanti di vita di ‘Diabolik’.
“Ho visto Fabrizio accasciarsi – ricostruisce in aula il cubano rispondendo alle domande dei pm Rita Ceraso e Mario Palazzi - mi sono alzato, ho visto una persona che correva con la pistola in mano, una persona sportiva, più alta di me, piu’ di 1,80. Ricordo che aveva qualcosa sul braccio e un pantaloncino fino al ginocchio”, ma del volto del killer l’autista di Piscitelli dice di non ricordare nulla. Nel Parco degli Acquedotti Gomez e Piscitelli c’erano stati anche il giorno prima dell’omicidio. “Eravamo andati al parco, ci siamo seduti sulla stessa panchina e anche in quell’occasione non mi ha detto nulla sul perché eravamo lì. Ma a un certo punto mi ha detto che potevamo andare via perché aveva sbagliato il giorno. E ci siamo tornati il giorno dopo”, ha spiegato.
Fra i testimoni, in aula sono stati chiamati anche alcuni dei parenti di Piscitelli. Il genero, Daniele Gatta, ha detto che Piscitelli aveva ‘’vari cellulari’’: ‘’un giorno mi diede un telefono criptato per chiamarlo quando non rispondeva, ma l’ho usato per poco tempo e dopo il suo omicidio l’ho buttato nel Tevere”. Richiamato in più occasioni dalla Corte per i tanti ‘non ricordo’, l’uomo ha riferito di aver accompagnato il 22 agosto 2019 la moglie e la figlia di Piscitelli a casa di un uomo della famiglia Senese e di essere andato anche a casa dell’albanese Elvis Demce per cercare di trovare informazioni sul delitto. Poi è stato il turno di Rita Corazza, la moglie di ‘Diabolik’, che non si è costituita parte civile nel procedimento, come invece hanno fatto i genitori, il fratello e la sorella di Piscitelli. La vedova di Piscitelli in aula ha ricordato le settimane dopo l’omicidio del marito. “A Roma tutti dicevano che quel giorno al parco Fabrizio aveva appuntamento con ‘er Miliardero’ Alessandro Capriotti’, cosa che mi lasciò intendere anche Fabrizio Fabietti’’ ha aggiunto.
Il 18 settembre 2023 in videocollegamento da un sito protetto con l’aula bunker di Rebibbia parla Rina Bussone, ex compagna di Calderon e sua principale accusatrice. “Calderon mi disse ‘ho ammazzato Diabolik’”, ha ribadito nel processo la donna, ora sottoposta a programma di protezione, confermando così le dichiarazioni rese ai magistrati il 13 dicembre 2021. “Calderon mi ha detto che per l’omicidio ha preso 100mila euro in contanti e 4mila al mese, e che Leandro Bennato aveva pagato a sue spese e lo aveva fatto perché Diabolik stava mandando in giro voci su di lui come un infame, diceva che ‘Leo era un infame’”, ha spiegato. La donna, con diversi precedenti per rapine a mano armata, ha ricostruito il ‘colpo’ messo a segno con due complici in una gioielleria in zona Casilina nel 2019 dove oltre ai gioielli aveva sottratto la pistola, una 9x21, che era stata estratta dal gioielliere per cercare di opporsi ai rapinatori. Uscito dal carcere “ho raccontato a Calderon della rapina in gioielleria, delle pistole e gli ho detto anche che le avevo sotterrato nel giardino e sulla buca ci avevo messo divanetto di vimini”.
In un primo momento, sentita la notizia dell’omicidio Piscitelli in televisione, “non ho fatto nulla - ha raccontato Rina Bussone - in tv dicevano che l’omicidio era stato commesso con una 7x65 e mi era sembrato strano che Calderon potesse aver commesso un omicidio con una pistola che si inceppava. Allora ho sistemato mia figlia che era in casa con me e sono andata in giardino e lì ho visto che le pistole non c’erano”. Allora “sono andata a casa a Roma dove mi ha aperto Calderon, ero arrabbiata e gli ho chiesto dove fossero le ‘bambine’ (le pistole ndr.) e mi ha risposto che non c’erano più. Lui poi mi ha portato in camera da letto e mi ha detto ‘ho ammazzato Diabolik’. Io gli ho chiesto allora ‘ma lo hai fatto con la 7x65?’ e lui mi ha risposto no ‘con la 9x21’”. Nel processo gli inquirenti hanno ricostruito i rapporti, gli spostamenti, la rete di contatti nei giorni e nelle ore precedenti alla morte di Fabrizio Piscitelli anche attraverso l’esame di uno dei suoi tre telefoni, depositando informative dei carabinieri del Nucleo Investigativo e della Squadra Mobile sul contesto in cui è maturato l’omicidio di Piscitelli, “un delitto avvenuto con una modalità eclatante”, ha ricordato il pm Mario Palazzi.
Dalle carte depositate agli atti, si legge, che l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, va “inquadrato certamente in un contesto di criminalità organizzata riconducibile a contenziosi sorti all'interno della consorteria diretta da Michele Senese. L’esame complessivo dei nuovi elementi raccolti sta mostrando incontrovertibilmente che nel periodo immediatamente antecedente all'agguato - sottolineano gli investigatori in un’informativa - erano insorti degli attriti ormai insanabili tra il gruppo di Giuseppe Molisso e quello di Fabrizio Piscitelli, entrambi al vertice di sodalizi finalizzati al narcotraffico operanti nella Capitale sotto l'egida del clan Senese. La rilevante crescita criminale della vittima negli ultimi anni prima della sua morte, le contestuali ingerenze dello stesso in vicende che avrebbero dovuto avere quantomeno il benestare del vertice del clan, il mancato rispetto dei patti economici alla base del sostentamento dei detenuti e del finanziamento della consorteria criminale non possono che costituire l'architrave delle motivazioni che hanno portato a tali attriti”.
Nel processo entrano anche le conversazioni acquisite dalle chat skyecc e le dichiarazioni rese dai fratelli Fabrizio e Simone Capogna, “fortemente inseriti, secondo gli inquirenti, nel narcotraffico romano”, ora collaboratori di giustizia. In una chat, due soggetti sostengono che “c’è l’ok di M”. M, ha ipotizzato un imvestigatore in aula, “è Michele Senese”. In silenzio è rimasto per tutta la durata del processo l’argentino, non si è sottoposto all’esame né ha rilasciato dichiarazioni spontanee, ma in un memoriale di sette pagine depositato dal suo difensore, l’avvocato Eleonora Nicla Moiraghi, si dice innocente. “Sono addolorato per la morte del signor Piscitelli pensando anche al dolore che prova la sua famiglia. Spero che verrà fuori chi ha commesso questo bruttissimo delitto e paghi con la giustizia e verso la famiglia di Piscitelli, liberandomi di questa accusa che pesa su di me come un macigno anche per la mia famiglia che sta vivendo una bruttissima esperienza”.
Nel corso del processo per Calderon sono arrivate le condanne all’ergastolo in primo grado come esecutore dell'omicidio dell'albanese Selavdi Shehaj ucciso sulla spiaggia di Torvaianica, a 12 anni in Appello per il tentato omicidio dei fratelli Costantino ed è stato raggiunto da una nuova misura cautelare dopo un’inchiesta della Dda sulle piazze di spaccio della Capitale. Per lui la procura con i pm Mario Palazzi, Rita Ceraso e Francesco Cascini hanno chiesto la condanna all’ergastolo con il riconoscimento del metodo mafioso. Un omicidio, hanno sottolineato i pubblici ministeri, “compiuto con metodo mafioso e con l’agevolazione di un gruppo criminale, nato dai contrasti tra associazioni organizzate”. Quello di Piscitelli “è stato un omicidio che ha avuto una grande eco. Un omicidio fatto in questa maniera è un omicidio come sanzione per aver ‘esondato’, come avviso ai naviganti perché Roma - ha rimarcato il pm della Dda Palazzi - apparentemente così anarchica è invece un luogo di sanzioni, anche eclatanti, comminate anche in piazza, affinché si capisca chi comanda. Una ‘sanzione’ che doveva essere compresa da tutti. Un delitto - ha ricordato - che costituisce uno spartiacque tra il prima e il dopo. Piscitelli era un leader carismatico, battezzato dai Senese, il cui solo nome mette paura. E Senese è un ‘marchio registrato’ che se speso in modo non invano realizza una docile sottomissione degli astanti”.
Richiesta a cui si sono associate le parti civili, rappresentate dagli avvocati Tiziana Siano e Luca Ranalli. “In quest’aula c’è il coraggio di una famiglia che accetta che questo è un omicidio nato in un contesto mafioso. È un processo dove sono state ricostruite responsabilità e modalità, dove si è vista l’omertà anche di chi si diceva amico di Fabrizio, si è vista la paura”, ha detto l’avvocato Siano. “Noi vogliamo che venga riconosciuta la responsabilità penale di Raul Esteban Calderon quale esecutore e che ci sia il coraggio di dire che questo omicidio è avvenuto - ha sottolineato la penalista che rappresenta la sorella e la madre di Piscitelli - con metodo mafioso: è emersa la violenza, la minaccia, la forza estorsiva di chi impone le regole”.
Di parere opposto la difesa di Calderon con gli avvocati Gian Domenico Caiazza e Eleonora Nicla Moiraghi. “In questo processo c’è qualcosa in più del dubbio, ci sono elementi certi che ci consentono di escludere l’identificazione di quella figura omicida del video in Raul Esteban Calderon”, hanno sostenuto i due penalisti. “La prova-regina di questo processo è la testimonianza di Rina Bussone. La stessa Bussone - hanno sostenuto i difensori di Calderon - che in due udienze ha detto per 147 volte ‘non ricordo’. È stata tutta una stratificazione di menzogne”. E “il pm nella sua requisitoria ha sostenuto che si tratti di un killer professionista. Non sappiamo se è un killer professionista ma uno che si copre solo il polpaccio dove ha il tatuaggio - ha sottolineato l’avvocato Caiazza - è un idiota. Perché non mettere una tuta? Perché non coprire entrambi i polpacci? E la mafia gli affida un omicidio del genere?”. Oggi saranno i giudici a decidere sulla responsabilità dell’omicidio e sul contesto in cui il delitto è maturato. (di Assunta Cassiano e Daniele Dell’Aglio)