(dall'inviata Elvira Terranova) - "Non hanno depistato", "non hanno mentito al processo", "sono servitori dello Stato", ma, soprattutto, i quattro poliziotti del Gruppo investigativo Falcone e Borsellino accusati del depistaggio sulle indagini sulla strage di via D'amelio, erano "l'ultimo chiodo della ruota di un carro che muove qualcun altro...". I difensori dei quattro poliziotti imputati, Vincenzo Maniscaldi, Giuseppe Di Gangi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli, non hanno dubbi. Davanti al gup del Tribunale di Caltanissetta hanno spiegato perché i poliziotti, tre di loro già in pensione, "non devono andare a processo", come chiesto, invece, dalla Procura. Per i 4 poliziotti, tutti presenti in aula anche oggi, è stato chiesto il "non luogo a procedere perché il fatto non sussiste", o "in subordine, la riqualificazione della condotta, in falsa testimonianza". A prendere la parola per prima è l'avvocata Maria Giambra, che difende Maurizio Zerilli e Angelo Tedesco. "Non possiamo parlare di depistaggio su vicende già 'depistate'. Il depistaggio si è verificato allora. E' come se volessimo resuscitare oggi un fatto che già si è verificato e si è consumato. E su quel fatto ci sono stati processi a rimedio", ribadisce nella piccola aula del Tribunale. "Se le false dichiarazioni che vengono addebitate agli imputati attengono ai fatti relativi alla strage di via D'Amelio e quindi a fatti che riguardano le indagini svolte e nei processi celebrati, come potrebbero oggi nel processo Bo depistare un processo e indagini che non solo sono state a loro tempo depistate, dalle quali sono derivati tre processi, che sono frutto del depistaggio e genesi di ulteriore depistaggio?", spiega la legale di Zerilli e Tedesco.
"Nel momento in cui si sono celebrati quei processi - dice ancora la legale - il falso quadro che era stato costruito in sede di indagini entra nel processo e si sostiene nei processi. Il depistaggio c'è stato nel momento in cui le indagini sono state indirizzate verso falsi elementi investigativi. Sulla base di quelle indagini si sono concentrati tre processi e il depistaggio ha portato alla condanna ingiusta di persone". Ai quattro, ex appartenenti al gruppo di indagine "Falcone-Borsellino", viene contestato dalla Procura di aver reso false dichiarazioni nel corso delle loro deposizioni in qualità di testi nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D'Amelio che si era concluso, in secondo grado, con la prescrizione del reato di calunnia per i tre imputati. Nel corso dell'udienza preliminare, il pm Bonaccorso aveva accusato di poliziotti, anche oggi tutti presenti in aula Caltanissetta, "di malafede, reticenze e false dichiarazioni".
''Agli imputati vengono contestate una serie di condotte che si concretizzano in false dichiarazioni e reticenze, secondo l'impostazione accusatorie mascherate da 'non ricordo'", ha detto il pm Maurizio Bonaccorso nel suo intervento, concluso con la richiesta di rinvio a giudizio. Occhi puntati sulla relazione di servizio, a firma di Zerilli, dopo alcuni sopralluoghi eseguiti con il falso pentito Vincenzo Scarantino. Documento ritrovato solo dopo 30 anni. "Se il rinvenimento di questi documenti può costituire, dal punto di vista del pm, una conferma al depistaggio, sulla posizione del poliziotto Maurizio Zerilli che refluenza può avere? Zerilli che consegna l'annotazione di servizio al proprio dirigente e poi il dirigente ritiene di non trasmetterla. E non ci interessa la ragione per la quale quella annotazione non fu trasmessa. Zerilli è l'ultima chiodo di una ruota di un carro che muove qualcun altro", dice la legale. "Maurizio Zerilli e Angelo Tedesco (due dei quattro poliziotti imputati ndr) nel 1994 erano giovanissimi poliziotti, uno appena 20enne e uno 30enne. L'annotazione non è stata trovata in un ufficio, l'hanno trasmessa al dirigente. Cosa ha fatto Arnaldo La Barbera, l'allora dirigente, lo ribadisco, non lo conosciamo. Permettetemi di dire che sulla posizione di Zerilli, sono ininfluenti".
L'annotazione d'indagine a cui si riferisce la legale dei due poliziotti è un documento di 30 anni fa ritrovato solo un anno fa dai pm della Procura di Caltanissetta nell'ambito dell'inchiesta sui 4 poliziotti. Il 28, 29 e 30 giugno 1994 i poliziotti del gruppo ''Falcone e Borsellino'' che indagavano sulle stragi del '92, guidato da Arnaldo La Barbera, fecero dei sopralluoghi con il falso pentito Vincenzo Scarantino. L'esito finì dentro una relazione datata 1 luglio 1994, di cui si è scoperto solo per caso l'esistenza di recente. Nessuno ne era a conoscenza perché non c'è mai stata traccia nei processi Borsellino. Un'annotazione anomala, nella forma ma anche nella sostanza, visto che si fa riferimento a luoghi inediti dopo tre decenni di indagini e processi. Dimenticata oppure volutamente nascosta, da chi e perché? La difesa non ha dubbi: "Zerilli e Tedesco erano semplici agenti che rivestivano dei ruoli tali da non potere essere in alcun modo partecipi di finalità di questa portata". E conclude: "Noi sappiamo quello che succedeva tra Arnaldo La Barbera e Vincenzo Scarantino?". Poi tocca all'avvocato Giuseppe Panepinto, legale dell'ispettore Vincenzo Maniscaldi. "E' documentalmente provato che quanto dichiarato dall'ispettore Vincenzo Maniscaldi è sempre stato vero", esordisce. "Non non solo non c'è una ipotesi di condanna ma non doveva essere neppure formulato il capo di imputazione", aggiunge. "Non c'è alcuna falsa dichiarazione nell'annotazione", dice il legale".
"Sulla base del dato documentale è evidente e provato che Maniscaldi non ha mai negato il vero, non ha mai dichiarato il falso- dice l'avvocato Panepinto - già oggi siamo nelle condizioni di dire che sarebbe ingiusto un processo per una posizione già documentata. Il pm avrebbe dovuto chiedere l'archiviazione per Maniscaldi perché le sue dichiarazioni avevano lo scopo di ricostruire la verità". "Sotto il profilo oggettivo -dice - c'è la prova della veridicità delle dichiarazioni rese da Maniscaldi e la insussistenza di qualunque condotta ipotizzata dal pm". Poco prima il legale ha sottolineato che "se depistaggio c'è stato è stato quello di Vincenzo Scarantino", il falso pentito che con le sue dichiarazioni ha fatto condannare degli innocenti. Spiega anche che, "come detto dalla Dia" Maniscaldi "era la memoria storica del Gruppo Falcone e Borsellino".
L'ultimo a prendere la parola è l'avvocato Giuseppe Seminara, che difende l'ispettore Giuseppe Di Gangi. Che esordisce dicendo "Di Gangi è un servitore dello Stato che per 40 anni, da agente fino a diventare Sovrintendente capo, continua la progressione della carriera proporzionata, all'interno di una vicenda che ha riguardato non solo gli appartenenti alle forze di Polizia ma anche la magistratura. Di Gangi ha ricevuto encomi, ha partecipato all'arresto di latitanti, ha svolto con onore il suo servizio per 40 anni, è esente di qualunque pregiudizio penale. Dal 2014 al 2019 si è trovato terminata con una richiesta di archiviazione. E' stato sottoposto a indagine per gli stessi fatti che sono oggetto della presente imputazione, per le questioni relative a San Bartolomeo al Mare. Di Gangi ha avuto una archiviazione perché il fatto non sussiste, una opzione liberatoria". In aula, al processo a Mario Bo e altri due poliziotti, Di Gangi parlò, tra numerosi 'non ricordo', di un episodio avvenuto a San Bartolomeo al mare, dove si trovava il falso pentito Vincenzo Scarantino.
"Il giorno prima della ritrattazione Scarantino aveva detto al personale dell'ufficio di Imperia che voleva parlare con loro urgentemente. Scarantino disse al dottore Bo che voleva tornare in carcere perché non voleva più collaborare. Ho assistito alla discussione tra Scarantino e il dottore Bo. Abbiamo dovuto ammanettarlo a casa perché Scarantino si stava avventando contro il funzionario. Davanti alla moglie e ai bambini. Non feci alcuna relazione di servizio''. Poi spiega: "Il Sovrintendente di Polizia Giuseppe Di Gangi non ha mai puntato la pistola in faccia a Vincenzo Scarantino". Il falso pentito Scarantino, davanti ai pm, al processo agli altri 3 poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, aveva detto: "Nella località protetta di San Bartolomeo a Mare quel poliziotto (Di Gangi ndr) mi ha afferrato per il collo e mi ha puntato la pistola in bocca. Davanti a mia moglie e ai miei figli". Tesi sempre smentita con forza da Di Gangi.
L'ultima parola spetta adesso al gup David Salvucci, che dovrà decidere se accogliere la richiesta di rinvio a giudizio oppure decidere il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per i quattro poliziotti. La decisione sarà resa nota venerdì, 15 novembre. Ci sarà un nuovo processo depistaggio o il gup archivierà?