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Lavoro: il recruiter, smart working aumenta senso appartenenza

Lavoro: il recruiter, smart working aumenta senso appartenenza
15 giugno 2017 | 13.20
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"Il concetto stesso di smart working ci ricorda che il termine 'lavoro' non è, e soprattutto non può essere, sinonimo di 'luogo'. Colossi informatici come Google e Microsoft stanno sperimentando con successo il 'lavoro agile' da anni, con dei risultati del tutto incoraggianti in fatto di efficienza e produttività. Dare ai propri dipendenti maggiore autonomia e flessibilità, infatti, porta molto spesso a una crescita del senso di appartenenza nei confronti della propria impresa". Lo afferma Carola Adami, fondatrice e Ceo di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

Con la nuova legge sul lavoro autonomo e sul lavoro agile, infatti, è arrivata anche in Italia una definizione normativa dello smart working: con questa regolamentazione a livello nazionale il lavoratore flessibile dipendente non sarà più un fenomeno su cui chiudere un occhio, quanto invece un ruolo disciplinato in tutto e per tutto.

Abbracciare lo smart working significa poter usufruire della modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, con tutti i vantaggi che questa può offrire sia alle aziende che ai lavoratori. Stando alla nuova normativa, la prestazione lavorativa 'agile' dovrà, infatti, avvenire in parte all'interno dei locali aziendali, in parte all'esterno. La scrivania fissa da questo punto di vista non esiste quindi più, ma continuano invece a permanere i ferrei limiti massimi di orario giornaliero e settimanale.

In Italia lo smart working è già stato sdoganato da molte aziende, ricorda Adami, quali Microsoft Italia, ma anche Enel, Vodafone, Ferrovie dello Stato e Unicredit, Siemens, solo per citarne alcune. Guardando ai risultati dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, attualmente gli smart worker in Italia sono circa 250mila: tanti sono infatti i lavoratori dipendenti che possono decidere sostanzialmente in autonomia i propri orari, i propri strumenti e le proprie postazioni di lavoro. A conti fatti, dunque, sono già in tutto e per tutto 'lavoratori 'agili' circa il 7% dei dipendenti tra dirigenti, quadri e impiegati, segnando così un aumento del 40% rispetto al 2013, anno in cui in Italia il concetto di smart working era poco più che un sussurro nei soli corridoi delle multinazionali.

Ancora oggi, del resto, la prestazioni smart sono caratteristica peculiare delle grandi aziende, mentre nell'universo delle Pmi questa nuova modalità deve ancora prendere slancio: qui, infatti, solo il 5% ha realizzato dei progetti di questo tipo durante il 2016. "Soprattutto nel mondo delle piccole e delle medie imprese, manca ancora oggi una solida cultura del lavoro flessibile", commenta Carola Adami, aggiungendo che "il pensiero che un impiegato che lavora all'esterno dell'ufficio rende di meno è infatti un pregiudizio difficile da eliminare".

Bisognerà, quindi, vedere cosa cambierà con l'applicazione delle nuove regole. I dati relativi al 2016 mostrano, infatti, che il dipendente 'agile' in Italia è nel 69% dei casi di sesso maschile, ha mediamente 41 anni ed è occupato perlopiù nel Settentrione (tra gli impiegati smart individuati in Italia il 52% vive infatti al Nord, il 38% al Centro e il 10% al Sud). "Con questa nuova regolamentazione dello smart working i numeri potrebbero però cambiare - rimarca Adami - in quanto la norma sembra confezionata appositamente per aiutare quelle donne che ad oggi rinunciano a un'occupazione stabile per evitare di allontanarsi ogni giorno dalla propria abitazione e dai propri figli".

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