di Elvira Terranova
"Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all'allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all'Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso". A raccontare l’aneddoto all'Adnkronos è l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, ricordando l'ex Capo dello Stato Francesco Cossiga alla vigilia dell'anniversario della sua scomparsa. "Cossiga - racconta Mannino nell'intervista - fu il vero artefice della nomina di Giovanni Falcone agli Affari penali al Ministero della Giustizia. Pur rendendo onore a Claudio Martelli, a cui va riconosciuta la nomina, fu un pensiero di Cossiga, una proposta dell'ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli che era, però, alla fine del suo mandato perché venne nominato giudice costituzionale".
"L'allora ministro Vassalli portò a Giulio Andreotti la lettera di proposta di Falcone che l'ex Presidente del Consiglio accettò in silenzio, senza avere nulla da ridire - dice ancora Mannino - poi Vassalli andò via e fu sostituito da Claudio Martelli che, in un primo momento, pur con la volontà di portare avanti l'iniziativa di Vassalli, si trovò di fronte alle esitazioni di Giovanni Falcone, che furono superate e il 21 febbraio del 1991, il Consiglio dei ministri, presieduto da Giulio Andreotti, nominò Giovanni Falcone direttore generale degli Affari penali al Ministero della Giustizia".
"Tutto questo non fu considerato da Cossiga una ciambella di potere a Falcone - aggiunge -: si era reso conto che la fine del maxiprocesso avrebbe rappresentato una ragione di reazione di Cosa nostra, perché conosceva i rapporti tra Cosa nostra e altri mondi". E "nella prospettiva di questo rischio altissimo, Cossiga è il vero artefice della nomina di Falcone a direttore degli Affari penali".
Per Mannino, oggi "manca uno come Cossiga", e servirebbe "in un periodo come questo". "Basterebbe andare leggere il passaggio che fece al Parlamento sulla crisi istituzionale, sulla crisi del rapporto tra Parlamento e governo e, soprattutto, la crisi del rapporto legislativo, esecutivo e giudiziario. Cossiga era un costituzionalista per cultura e formazione, un costituzionalista liberal. E' stato un liberale degasperiano".
Francesco Cossiga "aveva una dimensione di personalità singolare, straordinaria", dice Mannino. "Giovanissimo, giunto in Parlamento, entra nel circolo dei leader, per i rapporti con Segni, con Taviani, ministro della Difesa di quel tempo, un personaggio importante". "E stabilisce anche un rapporto con Aldo Moro, del quale diviene se non un prediletto, un alunno molto apprezzato di cui si fida moltissimo".
"Sarà la ragione per cui nel momento in cui si deve formare un appoggio del Partito comunista, Aldo Moro manda Cossiga al Viminale", dice ancora Mannino. "Quasi a volere sottolineare che è una persona di fiducia non solo nel rapporto personale: sa che conosce i meccanismi del mondo che integrano l'Italia a una parte del mondo o la contrappongono a un'altra parte del mondo. Fuor di metafora, Cossiga conosce benissimo la Nato, la Cia, l'Fbi e conosce benissimo Londra, quindi è un uomo non sprovveduto, provvisto di conoscenza ed esperienza e sensibilità".
"Questo rapporto con Aldo Moro è poi essenziale ai fini della strategia politica. Fino a quando il rapporto prevalente di Cossiga è stato con Segni e Taviani si è mosso nell'area dei Dorotei, lo erano Segni e Taviani ma anche Moro in un primo momento”, racconta.
E poi c’è la vicenda dolorosa del sequestro e la morte di Aldo Moro. “Cossiga ha avuto dal destino purtroppo affidata la vicenda del sequestro e l’uccisione di Moro - dice -molte volte nelle periferie disinformate o malamente informate si mette in discussione il ruolo di Cossiga durante il sequestro Moro, e parlo per testimonianza personale e non de relato”.
"E' stato il ruolo di chi, prigioniero del sistema di condizionamento del Ministero degli Interni, che non era un sistema di condizionamento che prescindesse dai forti legami e dei vincoli dalle conseguenze della guerra e del trattato di pace. La Cia non era un ospite, era appartenente al sistema nel quale l'Italia era inserita", dice. "Cossiga ha vissuto il sequestro con una terribile disperazione e una terribile speranza, di chi si rendeva conto che il sistema non consentiva margini e con la speranza di trovare, invece, il bandolo della matassa. Nessuno più di lui ha saputo interpretare le lettere di Moro e ne ha colto lo spirito".
"Certamente né Moretti né Morucci hanno raccontato quello che dovevano o che potevano raccontare - dice ancora Mannino - perché non lo hanno raccontato. Hanno reso sicura la propria sopravvivenza fisica. Quindi Cossiga ha fatto i conti con questa drammatica realtà. Ha sperato molto lungo la linea del rapporto che non poteva essere esposto o esibito, evidenziato, lungo la linea di Papa Montini. Che in ragione della sua autorità di Stato ha operato i tentativi possibili, non solo mettendo a disposizione delle Br un bel tesoretto ma cercando di dialogare con quelle opposte forze di apparato e di sistema che convergevano nella destinazione tragica della vita di Moro". "La mattina dell'8 maggio Cossiga sperava di vedere tornare Moro a casa e come tutti ha avuto il dolore di via Caetani e lì ha capito quello che c'era da capire".
"Cossiga ha cercato di svolgere un ruolo che ha un compendio essenziale nella Presidenza della repubblica - dice - All'inizio punta molto la sua presenza nella crescita della dimensione politica ed elettorale del Psi come premessa per una revisione dell'area di Sinistra dello stesso Pci che alla fine qualche sbocco doveva trovarlo, non poteva rimanere il Partito comunista. Ha cambiato nome solo perché è caduto il muro di Berlino". E poi ribadisce: "Oggi manca tanto uno come Cossiga, ma proprio tanto".