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La nuova edizione del libro, con una introduzione dell'autore, riporta in libreria "la cronaca di un anno tragico e appassionato"
'Ali di piombo', di Concetto Vecchio, non è e non vuole essere solo un libro sugli anni di piombo. E' un libro, tornato in libreria nella sua nuova edizione per Utet, che racconta da tutte le angolazioni disponibili un anno, il 1977, che il sottotitolo definisce 'tragico e appassionato'. Concetto Vecchio è uno scrittore, il suo 'Io vi accuso' su Giacomo Matteotti è stato lungamente celebrato e discusso, ed è un giornalista della Repubblica. Uno scrittore che non dimentica mai di essere un giornalista e che, anzi, chiude la sua introduzione alla nuova edizione ricordando che "il giornalismo è andare nei posti, col taccuino in mano, con più domande che risposte".
Un metodo rigoroso che Vecchio fa vivere nei colloqui con i 38 testimoni che ha incontrato per ricostruire non solo i fatti legati alla violenza politica e al terrorismo, evidentemente già noti, ma le riforme, la creatività, i movimenti culturali e le forme nuove del giornalismo (il riferimento alla nascita di Repubblica non è solo un omaggio alla sua 'casa' professionale) che a quei fatti si accostano in una contraddizione che va colta e sviscerata per non scattare una fotografia parziale di quell'anno.
Il filo conduttore sono le persone, con le loro storie e le loro porzioni di vita, che hanno aiutato l'autore a mettere insieme i pezzi, e le prospettive, di una cronaca che parte da una premessa e arriva a una conclusione: "L'Italia è anche la storia delle sue crudeltà". In questa frase c'è molto del libro e c'è anche molto delle singole vicende che tiene insieme. Concetto Vecchio ne cita diverse nell'introduzione a un testo uscito per la prima volta nel gennaio 2007, per Bur Rizzoli.
Ci sono le vittime dirette del terrorismo, ovviamente. "Un giornalista borghese" come Carlo Casalegno, ucciso dalle Brigate Rosse il 29 novembre 1977, nel racconto della vedova Dedi Andreis; "un piccolo democristiano di periferia" come Antonio Cocozzello, che viene gambizzato da un commando delle Br un mese prima, il 25 ottobre 1977; il fratello di Francesco Lorusso, ucciso da un carabiniere durante una manifestazione di piazza a Bologna, l'11 marzo 1977.
C'è il contributo di altri grandi giornalisti. Arrigo Levi, che di Casalegno era stato il direttore, incontrato da Vecchio al Quirinale quando era consigliere di Ciampi; Ezio Mauro, che rivela di essere stato nel mirino dei terroristi prima di Casalegno; Gad Lerner, al quale l'autore del libro chiede il numero di Carlo Rivolta, cronista del movimento del '77 per Repubblica, vittima dell'eroina, "droga che aveva falcidiato una generazione".
C'è un passaggio del libro che racconta la Torino del 1977, la città della Fiat in cui il terrorismo diventa una presenza costante e quasi 'metabolizzata'. "A Torino i ferimenti sono stati più che in qualsiasi altra città d'Italia, una ventina solo da parte delle Br, e la gente ormai si era abituata a convivere con questa situazione. Ma l'indifferenza di quei cuochi ha fatto rimanere male anche me". A parlare è il primo grande pentito delle Brigate Rosse Patrizio Peci, in un passaggio di 'Io, l'infame' che Vecchio riprende per raccontare, attraverso il racconto del ferimento al'interno di una mensa universitaria del geometra Franco Visca, dirigente della Fiat Presse colpito dai brigatisti il 30 giugno 1977, il clima di una città scivolata in una rassegnazione che inevitabilmente rischia di diventare connivenza. Quei cuochi, di fronte all'ennesimo fatto di violenza, reagiscono con assoluta tranquillità: "Ecco, adesso bisogna portarlo all'ospedale".
Un fatto minore che Concetto Vecchio utilizza per trasmettere il peso di un passaggio della storia italiana più complesso di quanto rappresentato dai grandi attentati. "Torino sarà anche indifferente, ma le Brigate Rosse scelgono i loro bersagli senza un ragionamento politico, accontentandosi della preda più facile, la meno protetta, seguendo una logica quantitativa". Queste parole restituiscono bene una parte del fallimento della lotta armata, quella militare. Nelle ultime pagine del libro, nell'Epilogo, prende forma un giudizio più largo sul movimento del '77 che ha "tramandato alla storia soprattutto immagini di lutti e di violenze": "Fu anche altro, certo, ma alla fine l'ala creativa, la sua parte migliore, finì per subire una dura sconfitta". Concetto Vecchio chiude il libro descrivendo la sensazione provata uscendo da casa di Antonio Cocozzello, il piccolo democristiano di periferia già citato nell'introduzione: "l'insensatezza del terrorismo m'è parsa davvero in tutta la sua atroce miseria". (Di Fabio Insenga)