
Michael Driessen (John Cabot) parla con l'Adnkronos dell'eredità politica di papa Francesco, di Trump e del futuro della religione come forza nella società
A poche ore dalla notizia della morte di Papa Francesco, l’Adnkronos ha intervistato Michael Driessen, professore di Scienze Politiche alla John Cabot University, autore del libro “The Global Politics of Interreligious Dialogue” e uno dei maggiori esperti del rapporto tra religione e geopolitica. Con lui abbiamo ripercorso il lascito del pontificato di Francesco e analizzato il futuro della Chiesa cattolica in un mondo sempre più frammentato.
Professor Driessen, qual è l’eredità religiosa e politica di Papa Francesco?
Papa Francesco verrà ricordato per molte cose, ma soprattutto per aver incarnato una visione morale del mondo profondamente radicata nella sua origine dal Sud globale. Ha messo al centro del suo pontificato la periferia, i poveri, gli emarginati, promuovendo una politica coerente con il mondo in via di sviluppo.
Il suo impegno per il dialogo interreligioso è stato cruciale. Non si è trattato solo di un progetto spirituale, ma anche di una piattaforma politica per la cooperazione multilaterale, un’idea di bene comune capace di attraversare confini religiosi e culturali. Concetti come fratellanza umana, cittadinanza inclusiva e azione interreligiosa per l’ambiente faranno parte della sua eredità per molto tempo.
Come si è evoluto il rapporto della Chiesa con l’Islam e l’ebraismo sotto Francesco?
È interessante notare che, quando divenne Papa, Francesco conosceva poco l’Islam: il suo dialogo interreligioso nasceva dal forte legame con la comunità ebraica di Buenos Aires. Tuttavia, sin dall’inizio ha avuto una chiara vocazione alla pace internazionale, che lo ha portato rapidamente ad affrontare temi complessi nel mondo musulmano.
Tra il 2014 e il 2015, in piena crisi post-Primavere arabe e con l’emergere dell’Isis, Francesco ha preso iniziative coraggiose, come la firma del Documento sulla Fratellanza Umana ad Abu Dhabi nel 2019. Quel momento fu un apice simbolico e politico, che sembrava aprire nuovi orizzonti di cooperazione religiosa in Medio Oriente, anche alla luce degli Accordi di Abramo.
Tuttavia, dopo il 7 ottobre 2023 e il ritorno della violenza interreligiosa, è stato difficile tradurre quella visione in una risposta concreta. Il passaggio dal dialogo alla gestione del conflitto interreligioso è rimasto incompiuto.
Il rapporto tra Francesco e gli Stati Uniti è sempre stato complesso, in particolare con Donald Trump. Cosa ci dice questa tensione sul ruolo della Chiesa oggi?
Il rapporto è stato teso fin dall’inizio. La visione di Francesco si scontrava con quella della gerarchia cattolica americana, che sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI aveva assunto un ruolo centrale, soprattutto sui temi dell’aborto e della lotta alla secolarizzazione. Con Francesco, quella centralità è venuta meno.
Molti vescovi e seminaristi americani non sono pro-Francesco, nonostante gli anni del suo pontificato e le nomine effettuate. Questo ha portato a una spaccatura interna: la gerarchia è rimasta conservatrice, mentre la base cattolica è molto più diversificata, divisa tra bianchi (maggiormente pro-Trump) e ispanici (ancora in maggioranza democratici).
Paradossalmente, Francesco ha avuto poca influenza negli Stati Uniti, anche in presenza di un presidente cattolico come Joe Biden. Ci si sarebbe potuti aspettare una “alleanza geopolitica” tra i due, simile a quella tra Reagan e Giovanni Paolo II, ma così non è stato.
E oggi, con un vicepresidente come J.D. Vance, anche lui cattolico ma espressione di un cattolicesimo politico molto diverso, cosa dobbiamo aspettarci?
J.D. Vance rappresenta una nuova corrente di cattolicesimo politico, più nazionalista e populista. La sua recente visita al Papa, proprio il giorno prima della morte di Francesco, è stata simbolicamente carica di significati. Il prossimo conclave si giocherà anche sul futuro della relazione tra il cattolicesimo globale e gli Stati Uniti.
La Chiesa cattolica moderna ha ancora la capacità di influenzare la storia, come ai tempi di Giovanni Paolo II?
Siamo in un’epoca di crisi delle democrazie liberali, sia a livello interno che internazionale. E in queste fasi di crisi, le religioni tornano ad avere un ruolo centrale come fonte di legittimazione politica, coesione sociale e immaginazione geopolitica.
Basti pensare al ritorno dell’ortodossia nella Russia di Putin, o all’induismo nazionalista in India. In questo contesto, il cattolicesimo ha una forza unica: è globale, transnazionale, con oltre un miliardo di fedeli. Ecco perché, anche se Francesco ha mostrato i limiti del potere geopolitico papale in un mondo sempre più hobbesiano, la sua visione teopolitica resta cruciale. Francesco ha indicato una strada, ma sarà il prossimo Papa a doverla sviluppare, in un mondo polarizzato e attraversato da nuove forme di “religiosità politica”.
In conclusione, possiamo dire che la teopolitica è tornata al centro della scena internazionale?
Assolutamente. In un mondo in cui l’80% della popolazione si riconosce ancora in appartenenze religiose, e in cui la crisi dell’ordine liberale spinge molti a cercare nuove (o antiche) fonti di significato, le religioni continueranno a contare. Il papato resta uno degli attori simbolici e politici più potenti su questo scacchiere. (di Giorgio Rutelli)