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Covid, lo studio: anticorpi dei guariti attivi ancora dopo 11 mesi

E' quanto emerge da una ricerca realizzata dal laboratorio di virologia dell’Istituto nazionale malattie infettive 'Lazzaro Spallanzani' di Roma

(FOTOGRAMMA)
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14 aprile 2021 | 15.52
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Gli anticorpi neutralizzanti contro il Coronavirus nei pazienti guariti sono ancora attivi a 11 mesi dall’infezione. E' quanto emerge da una ricerca realizzata dal laboratorio di virologia dell’Istituto nazionale malattie infettive 'Lazzaro Spallanzani' di Roma, diretto da Maria Rosaria Capobianchi, appena pubblicato sulla rivista 'Viruses'. Gli anticorpi "sono ancora presenti a livelli consistenti", aggiunge la ricerca.

I ricercatori del Laboratorio di Virologia hanno analizzato, tra febbraio 2020 e gennaio 2021, 763 campioni di siero da 662 pazienti Covid-19, prelevati durante il ricovero allo Spallanzani o dopo il superamento dell’infezione, nel corso dei controlli di follow-up o degli screening per potenziali donazioni di plasma immune. "Questi campioni sono stati quindi sottoposti a sieroneutralizzazione, tecnica virologica classica - spiegano i ricercatori - con la quale si verifica la capacità dei campioni ematici di neutralizzare il virus vivo e che rappresenta il 'gold standard' per la determinazione dell’efficacia protettiva degli anticorpi, essendo più precisa ed affidabile della tecnica degli pseudovirus alla quale molti gruppi di ricerca oggi ricorrono, soprattutto quelli che non dispongono di laboratori di biosicurezza quali quelli presenti presso l’Inmi".

Dalla ricerca è emerso "anzitutto che i livelli (o titoli) di anticorpi neutralizzanti sono più elevati nelle persone di età superiore ai 60 anni e tanto più elevati quanto più severi sono stati i sintomi respiratori manifestati dai pazienti - osserva lo studio -. I livelli più elevati sono stati raggiunti dai pazienti che manifestavano la cosiddetta Ards (Acute Respiratory Distress Syndrome) con una P/F ratio (il rapporto tra la pressione dell’ossigeno nel sangue arterioso e la percentuale di ossigeno inspirata dal paziente) inferiore a 200 mmHg".

L’aspetto più significativo della ricerca è stata tuttavia la conferma che la maggior parte dei pazienti seguiti per almeno sei mesi e per un massimo di undici mesi "ha mantenuto un livello consistente di anticorpi neutralizzanti - precisa la ricerca -. Nel 60% circa dei casi seguiti gli anticorpi neutralizzanti hanno raggiunto il picco tra uno e due mesi dopo l’infezione, hanno subito un lieve calo tra i due e i tre mesi e successivamente sono rimasti stabili sino a undici mesi dopo l’infezione. Nel 24% dei casi gli anticorpi hanno manifestato un trend di discesa continua, senza tuttavia arrivare mai al livello di non essere rilevabili. Nel 15% circa dei casi, infine, gli anticorpi neutralizzanti hanno evidenziato un trend opposto, di incremento nel corso del periodo osservato".

I dati che emergono dalla ricerca hanno importanti conseguenze pratiche. I ricercatori dello Spallanzani hanno infatti sviluppato un algoritmo per lo screening dei donatori di plasma convalescente, che ha permesso di ridurre il numero di campioni sottoposti a test di neutralizzazione, e quindi il carico di lavoro del laboratorio, senza una perdita significativa di donazioni idonee. Ma i dati che emergono dalla ricerca sono importanti "soprattutto dal punto di vista epidemiologico, perché forniscono supporto all’ipotesi che la durata della protezione conferita dall’infezione naturale e dai vaccini possa andare oltre gli otto-dieci mesi sino ad oggi ipotizzati dalla letteratura sull’argomento", avvertono gli scienziati.

“La sieroneutralizzazione, anche se complessa ed impegnativa in termini di tempo richiesto e competenze degli operatori, rimane lo strumento di riferimento per la valutazione dell'immunità anticorpo-mediata dopo l'infezione da Sars-CoV-2 - affermano Giulia Matusali e Francesca Colavita, due delle autrici dello studio -. Utilizzando algoritmi di test intelligenti siamo riusciti ad ottimizzare il flusso di lavoro del laboratorio per monitorare la protezione anticorpo-mediata nei pazienti Covid-19, nei donatori di plasma e negli individui vaccinati”.

"Mentre i medici seguono i pazienti nel percorso successivo all’infezione, i loro campioni biologici ci aiutano a capire meglio la risposta del nostro organismo all’infezione e ad elaborare nuove ipotesi sull’evoluzione della malattia e sulla durata della protezione garantita dall’infezione naturale o dai vaccini, in un circolo virtuoso che mette sempre al centro il paziente e le cure" afferma poi Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del laboratorio di Virologia dell’Inmi Spallanzani di Roma, commentando lo studio che ha coordinato.

"Questa ricerca conferma la bontà dell’approccio che da sempre persegue l’Inmi di stretta collaborazione tra l’attività di laboratorio e l’attività clinica, in questo caso il 'follow-up' dei pazienti dopo la fase acuta dell’infezione”.

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