Sisci: "Guardate al Pakistan, collaborazione possibile ma questione delicata per Pechino"
Da una parte la Cina, con il suo governo accusato di aver messo in atto una delle più gravi violazioni dei diritti umani di questi tempi, l'oppressione degli uiguri nello Xinjiang, etnia turcofona di fede islamica. Dall'altra parte i Talebani, fondamentalisti islamici. Un passato e un futuro in un presente incerto per un Afghanistan che sembra sempre più nel caos. Secondo la Cnn, il Partito comunista cinese e i Talebani, ospitati nel 2019 dalla Cina per colloqui di pace, potrebbero presto trovarsi a lavorare insieme, almeno per qualche tempo in quell'Afghanistan, che con la Cina condivide un brevissimo tratto di confine, in cui dopo 20 anni si avvia a conclusione il ritiro delle forze della coalizione nel mezzo di un'avanzata dei Talebani.
Al South China Morning Post, Suhail Shaheen, un portavoce del gruppo, ha confermato che per il movimento fondato dal mullah Omar la Cina è un'"amica benvenuta" e che dovrebbero iniziare "il prima possibile" colloqui sulla ricostruzione con il gigante asiatico storico 'amico' del vicino Pakistan, con influenza sui Talebani. Parole arrivate poche ore dopo che al Wall Street Journal un portavoce chiariva che il gruppo "non interferirà negli affari interni della Cina" pur "preoccupato dall'oppressione dei musulmani" nello Xinjiang.
L'eventualità di una "collaborazione" della Cina "con i Talebani è possibile proprio perché c'è la questione del Pakistan", dice all'Adnkronos il sinologo Francesco Sisci, professore di geopolitica alla Luiss, senza dimenticare che in passato il movimento si è "dimostrato inaffidabile" anche se "entrambi hanno un avversario comune", l'India. "La Cina ha storicamente buoni rapporti con il Pakistan", dove proprio oggi nove cittadini cinesi sono morti in un attacco.
"Forti di questo buon rapporto - continua - i Talebani potrebbero avere buone relazioni anche con la Cina". Ma la questione è "delicata" per Pechino perché negli anni passati, osserva, "i Talebani sono stati la condotta principale per l'indottrinamento, la radicalizzazione di uiguri dello Xinjiang" e perché "c'è una diffusa minoranza islamica nella stessa Cina che è stata 'contaminata' dalla radicalizzazione dell'estremismo islamico" fuori dai confini cinesi. E quindi, rimarca, un eventuale "arrivo al potere dei Talebani a Kabul rischia di essere molto delicato" per Pechino se il movimento "non abbandonerà l'estremismo islamico".
Proprio ieri, da Dushanbe, il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha sollecitato i Talebani a rendersi conto delle "responsabilità", a "rompere con tutte le forze terroristiche" e a "tornare alla politica tradizionale", auspicando per il futuro dell'Afghanistan un "accordo politico inclusivo". Il gigante asiatico, che non si è mai impegnato militarmente nel pantano afghano, ne è sempre stato attratto dalle 'ricchezze', dalle sue risorse naturali, e ha promesso di giocare un ruolo importante nella ricostruzione, portando avanti l'obiettivo dell'eliminazione del terrorismo internazionale e della stabilità per una terra martoriata da decenni di guerre.
A maggio la diplomazia cinese confermava colloqui tra Pechino, Kabul e Islamabad per estendere all'Afghanistan il 'corridoio economico' tra Cina e Pakistan (China-Pakistan Economic Corridor, Cpec). Ma il cruccio resta lo Xinjiang (teatro della repressione degli uiguri) e Pechino non vuole che un eventuale Afghanistan nel caos totale possa essere sfruttato da militanti uiguri.
Lo stesso South China Morning Post scriveva ad aprile della possibilità che Pechino consideri l'invio di una "forza di peacekeeping" se dovesse ritenere una minaccia per lo Xinjiang la situazione in Afghanistan. "La Cina - dice Sisci - non ha voglia di mandare truppe in Afghanistan perché è ben cosciente che chiunque vada in Afghanistan si rompe le ossa, ma affidarsi semplicemente ai Talebani può essere delicato: in passato si sono mostrati inaffidabili per chiunque".
Oggi, ha sostenuto alla Cnn il senatore pakistano Mushahid Hussain, presidente del Pakistan-China Institute, gli 'eredi del mullah Omar' sono più "pragmatici" rispetto al passato. Fanno di tutto, ha scritto il Wall Street Journal, per tranquillizzare il gigante asiatico, che un tempo sarebbe stato preoccupato dalla loro avanzata con il pensiero rivolto allo Xinjiang. E per il Global Times, voce all'estero del governo di Pechino, quelle domande ai Talebani su quella regione hanno l'unico obiettivo di "seminare discordia tra Pechino e i Talebani".
Da inizio maggio, quando è cominciato il ritiro delle forze della coalizione, i Talebani sono stati protagonisti di un'avanzata che li ha visti prevalere in un distretto dopo l'altro della devastata terra afghana. Gli insorti rivendicano di avere il controllo dell'85% del territorio, il governo di Kabul nega e stime citate nei giorni scorsi dalla Bbc sostengono abbiano in mano più di un terzo dei circa 400 distretti di Paese, compreso un arco di terra che va dal confine iraniano nell'ovest fino alla frontiera con la Cina, dall'altra parte dell'Afghanistan. Il Guardian scriveva ieri di un Afghanistan sbalordito dall'entità e dalla rapidità del collasso delle forze di sicurezza. Per George Bush, presidente nel 2001 quando gli americani sbarcarono in Afghanistan dopo gli attacchi dell'11 settembre, il ritiro è un "errore", che pagheranno "donne e ragazze afghane".