Le conseguenze di una sentenza che mette al centro le regole del mercato e della concorrenza
Vince il diritto, rischia di perdere il calcio. La sintesi estrema del significato della sentenza della Corte di Giustizia europea, che si è espressa contro il monopolio dell'Uefa e che può riaprire lo spazio utile per la Superlega, è legata alle conseguenze che si possono immaginare rispetto al venire meno di un principio che finora ha retto l'architettura del calcio europeo e di quello mondiale, estendendo il concetto alla Fifa. E' una conclusione a cui si arriva anche percorrendo strade diverse, siano più tecniche o più passionali. C'è un problema di regole da affrontare, e c'è un tema fondamentale che è la sostenibilità economica del calcio, ma non si può ridurre la questione al solo diritto.
Da un punto di vista del diritto comunitario, la sentenza della Corte di Giustizia europea non fa che rimettersi al principio fondamentale secondo cui la concorrenza è un bene superiore e il libero accesso al mercato, a qualsiasi mercato, ne è diretta conseguenza. Formalmente Fifa e Uefa sono organizzazioni private, che la storia ormai centenaria del calcio ha reso istituzioni ma che il diritto non riconosce come tali. Per questo, di fronte a un ricorso formulato in maniera ineccepibile da un punto di vista della strategia giuridica, la Corte ha fotografato la realtà. In linea di principio, e di diritto, l'Uefa esercita una posizione dominante e fa un abuso di potere quando vieta ad altri di organizzare competizioni ufficiali in Europa.
La stessa Uefa, nel commentare la sentenza, parla di "una carenza storica nel quadro della pre-autorizzazione della Uefa", aggiungendo che è "un aspetto tecnico che è già stato riconosciuto e affrontato nel giugno 2022". Cosa vuol dire? Che la sentenza poggia su una lacuna che fino a oggi è stata vissuta solo come formale e che oggi diventa sostanziale. L'Uefa dice anche quello che vuole continuare a fare, con "l'impegno a sostenere la piramide calcistica europea, assicurando che continui a servire i più ampi interessi della società". Come? "Continuando a plasmare il modello sportivo europeo collettivamente con associazioni nazionali, leghe, club, tifosi, giocatori, allenatori, istituzioni europee, governi e partner".
Una prima sostanziale obiezione a qualsiasi progetto di Superlega è arrivato dalla base. In nome di un altro principio, ritenuto assoluto e inalienabile da chiunque abbia messo piede su un campo, dentro uno stadio o abbia anche solo guardato calcio con la passione del tifoso: il calcio deve essere di tutti, accessibile a tutti, e deve prevedere la possibilità teorica e romantica di arrivare allo scudetto o a vincere la Champions League iniziando a vincere in prima categoria. Non succederà mai ma è il principio che tiene insieme qualsiasi idea di calcio che non sia una competizione privata, esclusiva, a beneficio di pochi eletti.
Spesso quando si parla di Superlega si associa il concetto all'esigenza di dare un futuro all'industria del calcio. Il piano si sposta, non più diritto e neanche impatto sociale ma calcolo economico. Quando si fa riferimento alla sostenibilità del sistema calcio, tema su cui incidono gli errori, gli sprechi, le incongruenze di gestioni tutt'altro che lungimiranti, non va dimenticano un fattore fondamentale: il calcio per come lo conosciamo, universale e aperto a tutti, può contare su un asset praticamente inesauribile che è la partecipazione di massa; il calcio a cui si pensa con la Superlega è un circolo ristretto di interessi, passione e risorse finanziarie che può nascere e morire come qualsiasi prodotto commerciale. Può essere sostenibile per alcuni, e per un certo tempo, e rivelarsi realmente insostenibile senza preavviso. (Di Fabio Insenga)