La consigliera all'Adnkronos: "Si direbbe anche addio a Rai Cultura, Rai Storia e Rai Sport"
di Veronica Marino
Chissà se è meglio abolire il canone che dà diritto ad un servizio pubblico radiotelevisivo o rendere tale servizio così coerente con la parola ‘servizio’ da trasformarlo in qualcosa che agli italiani fa piacere pagare? Il dibattito è più che mai in corso e mentre alcuni esponenti politici e istituzionali, a partire dal vicepremier Di Maio, spingono per la prima ipotesi e preparano il terreno per una legge che archivi l’imposta di scopo in questione, alcuni componenti del consiglio di amministrazione della Rai ragionano in profondità sulla questione. A condividere le sue riflessioni con l’Adnkronos è la consigliera Rai, al suo secondo mandato in Cda, Rita Borioni che in premessa invita a meditare su un aspetto semplice e netto: “Non pagare più il canone e affidarsi solo alla pubblicità significa diventare, in quanto spettatori, il prodotto che le televisioni vendono agli inserzionisti; diventiamo contatti, solo e unicamente consumatori. Non più cittadini ma solo consumatori. Se è gratis, la merce sei tu!”.
Ma la Borioni entra più in profondità, affrontando, senza ignorare i vulnus del servizio pubblico, le conseguenze della cancellazione del canone: dal rafforzamento degli Ott alle ricadute sul perimetro di offerta e occupazionale; dall’overdose di interruzioni pubblicitarie all’addio forzato a Rai Cultura, Rai Storia e ai canali di Rai Sport; dal ritorno degli spot su Rai Yoyo all’incremento di spot su Rai Gulp; dalla sforbiciata al numero di canali e di sedi regionali ed estere al rischio di compromettere il cammino verso la digitalizzazione e la promozione delle Teche.
“Non avrebbe senso – dice la Borioni - discutere di una proposta di legge ("Abolizione del canone di abbonamento alle radioaudizioni e alla televisione e della relativa tassa di concessione governativa, nonché modifica dell'articolo 38 del testo unico di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, in materia di limiti di affollamento pubblicitario nelle trasmissioni radiotelevisive", ndr) di cui, ad oggi, è disponibile solo il titolo. Ma poiché da alcuni giorni si susseguono gli annunci di abolizione del canone Rai, forse è venuto il momento di riflettere, almeno, sulle conseguenze. Quello che si può supporre dal titolo della proposta di legge – osserva - è che, a fronte della abolizione del canone, sarebbero aboliti anche i limiti di affollamento pubblicitario che oggi sono imposti alla Rai nella misura del 4% settimanale mentre sono del 15% giornaliero per le singole reti commerciali autorizzate alla trasmissione”. E questa novità sui tetti pubblicitari cosa comporterebbe?
“Beh, l’equiparazione dei limiti di affollamento tra Rai e reti private – argomenta Rita Borioni - comporterebbe di quadruplicare, in media, la quantità di interruzioni pubblicitarie nelle trasmissioni della Rai. E questo solo per iniziare, considerato che la Rai, al fine di competere sul mercato per la conquista di inserzioni pubblicitarie, dovrebbe anche rinunciare a tutta la programmazione di nicchia, quella di divulgazione culturale, di sperimentazione di nuovi formati o nuovi linguaggi, l’offerta dedicata agli sport ‘minori’ e così via. Diciamo, quindi, subito addio a Rai Cultura e a Rai Storia, ma anche ai canali di Rai Sport. A chi poi ha bambini è noto che Rai ha tolto la pubblicità a Rai Yoyo, il canale dedicato ai più piccoli, mentre su Rai Gulp la pubblicità è strettamente monitorata. Ma si potrebbero continuare a perseguire questi criteri dovendo contare solo e unicamente sul mercato pubblicitario?”.
Anche sul fronte ‘cinema e audiovisivi’ non mancherebbero effetti negativi secondo la Borioni. “Ci sono gli obblighi di investimento, promozione e programmazione di opere cinematografiche e audiovisive – fa notare - che, benché riguardino tutti i fornitori di servizi media audiovisivi lineari e non lineari, prevedono per la Rai quote percentuali da calcolarsi sui ricavi complessivi, sensibilmente più alte rispetto agli altri attori del sistema, e questo sempre in ragione del finanziamento attraverso il canone. Basti dire che nel 2017 i soli investimenti in progetti di coproduzione internazionale (produzione e preacquisto di opere cinematografiche, televisive, teatrali, multimediali con almeno un partner straniero) ammontavano a 45 milioni di euro”.
E poi c'è il sistema nel suo complesso: “La pubblicità del settore radio-televisivo è in costante calo da diversi anni e ha un valore che supera di poco i 4 miliardi di euro; di questi la Rai raccoglie una cifra che ottimisticamente si colloca intorno ai 600 milioni e che copre circa 1/4 dell'intero bilancio dell’azienda. Anche immaginando una forte contrazione delle spese e considerando che il costo del personale oscilla tra i 900 milioni e il miliardo di euro, non credo sia plausibile (volendo conservare l'attuale perimetro di ascolti e di canali e di investimenti tecnologici, oltre che di personale) ipotizzare la sostenibilità di un bilancio di molto inferiore ai due miliardi. Ma due miliardi sono poco meno della metà del totale dell'investimento pubblicitario italiano del settore. E oggi, tutte le tv commerciali si possono spartire, calcolando a spanne, circa 3,5 miliardi di euro di pubblicità”.
L’abolizione del canone quindi si rifletterebbe anche, più in generale, sull’intero sistema dei media? “Ne sono convinta. Anche ammettendo, nel mondo della fantasia più sfrenata, che Rai riesca a raccogliere tutto quello che è necessario alla sua sopravvivenza sul mercato, saranno altre le televisioni che cadranno, con il risultato di restringere la quantità di offerta (e, di fatto la concorrenza). Probabilmente si rafforzerebbero solo gli OTT - Over The Top - vale a dire le multinazionali internazionali (Netflix, Google, Apple) insieme ai grandi gruppi internazionali (Sky, Fox etc). Minore offerta, quindi, e grande espansione delle tv on demand a pagamento, quelle che non impongono una tassa iniqua, ma che costano una novantina di euro al mese. Senza trascurare l’effetto devastante che questa rivoluzione del mercato pubblicitario avrebbe sulla carta stampata”.
La Rai, però, così come è ora riuscirebbe a vivere di sola pubblicità? “Nella realtà, sappiamo bene che non è affatto certo che Rai sia in grado di raccogliere, in un mercato difficile e in continua contrazione, le risorse necessarie a conservare l’attuale perimetro di offerta e occupazionale. È molto più probabile un netto ridimensionamento in termini di occupazione e di numero di canali. E quindi migliaia di dipendenti Rai a casa e questo senza considerare le conseguenze su tutto l’indotto (società di produzione, liberi professionisti, fornitori di tecnologie etc). I risparmi dovranno ricadere anche sull’informazione e sulle sedi regionali, oltre che sulle corrispondenze estere. E anche obblighi quali la conservazione, la digitalizzazione e la promozione delle Teche, l’offerta per le persone con disabilità sensoriali, l’informazione sulle istituzioni, i servizi di pubblica utilità (Iso Radio a titolo esemplificativo), non avrebbero più ragione di essere e non sarebbero più alla portata del bilancio di una Rai senza canone. E questo perché questi obblighi comportano moltissimi costi (che il servizio pubblico è ben lieto di sostenere) e poche, pochissime entrate economico finanziarie”.
Questa Rai deve fare di più oppure no per meritarsi il canone pagato dai cittadini in bolletta? “La Rai ha molti, moltissimi difetti e mancanze: i livelli di pluralismo, la qualità di molte trasmissioni, il ritardo nell’innovazione, l’indulgere nella ripetitività di formule, l’intromissione, spesso intollerabile e arrogante, della politica, la scarsa attenzione ai talenti interni e la miopia rispetto ai talenti e alla creatività che vivono fuori dalle sue mura. Ma è anche l’unico soggetto nel panorama radiotelevisivo e multimediale italiano dal quale possiamo pretendere che abbandoni quei vizi e quelle mancanze”.