Dal 2008 al 2018 il Paese ha perso oltre 2 miliardi di ore lavorate con conseguenze sulle retribuzioni. Dinamiche che avranno forti impatti sugli importi delle pensioni future. A maggior ragione dal 2036 con il sistema interamente contributivo. È quanto emerge dal documento 'Verso la riforma previdenziale. Alcuni elementi di riflessione' realizzato dalla Fondazione studi consulenti del lavoro, e che analizza lo scenario demografico-lavorativo del Paese.
Secondo i consulenti del lavoro, sebbene tra il 2008 e 2018 l’occupazione sia aumentata di 125mila unità, con una variazione positiva dello 0,5%, nello stesso periodo si sono perse oltre 2 miliardi di ore lavorate che, calcolate per ciascun occupato, portano il volume annuo medio in capo ad ogni lavoratore dalle 1.806 ore del 2008 alle 1.722 del 2018 (-4,6%). Una decrescita generalizzata per il nostro Paese destinata ad impattare sugli importi degli assegni pensionistici futuri degli italiani, sempre più calcolati su quanti contributi previdenziali realmente versati. Non solo.
Tale scenario, fra le altre cose, deve fare i conti, rimarcano i consulenti del lavoro, con il calo demografico destinato, anche questo, ad impattare sugli equilibri pensionistici di medio periodo. Secondo l’Ocse, infatti, entro il 2050 in Italia il numero dei pensionati potrebbe superare quello dei lavoratori.
E il documento della Fondazione studi dei consulenti del lavoro evidenzia le principali criticità del mercato del lavoro italiano e le azioni da mettere in campo per sostenere la crescita, indispensabile anche per la sostenibilità del sistema previdenziale. Particolarmente allarmante risulta il divario tra tendenze nazionali e internazionali per quanto attiene il lavoro giovanile dove l’Italia presenta un livello di occupazione dimezzato rispetto a quello dei giovani europei, dove la media di occupati sul totale della popolazione giovanile è del 35,3%.
A pesare poi è la strutturale presenza di lavoro irregolare che 'sottrae' annualmente alla platea dei contribuenti il 15,5% dei lavoratori (dato al 2017). Un danno duplice: per il sistema, che potrebbe migliorare performance in termini di sostenibilità, e per gli stessi lavoratori, il cui futuro risulta più a rischio di quello del sistema previdenziale. Nel corso del decennio preso in esame, la stagnazione economica che ha caratterizzato l’Italia, dove il Pil non è ancora riuscito a recuperare i livelli precrisi, ha condizionato anche la dinamica della produttività e della disponibilità di reddito.
È evidente che questi aspetti già stanno avendo un impatto estremamente rilevante sui lavoratori-contribuenti di oggi, la cui pensione sarà calcolata in misura preponderante o esclusiva (a partire dal 2036) con il sistema contributivo, ponendo un forte interrogativo sull’adeguatezza del futuro assegno pensionistico che saranno in grado di garantirsi con i loro "accantonamenti".
"È quanto mai necessario, soprattutto fra le nuove generazioni, sensibilizzare i lavoratori italiani ad una adeguata gestione del Tfr e, più in generale, all’investimento in previdenza complementare per garantirsi un reddito adeguato nella vecchiaia", ribadisce la presidente del Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro, Marina Calderone.
"Si tratta -continua- di una sfida in più per un sistema che dovrà nei prossimi anni necessariamente attivare tutta quella rete di infrastrutture e di servizi – banche dati, formazione, accompagnamento al lavoro, consulenza – necessaria a supportare l’occupabilità dei lavoratori lungo tutto l’arco della vita attiva e a coprire, con apposita e nuova strumentazione, i rischi derivanti dalle interruzioni dei percorsi lavorativi che saranno, presumibilmente, molto più frequenti e diffusi", conclude.