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Gig Worker a prova di tutele? Ecco cosa dicono i giuslavoristi sulla nuova direttiva Ue

Il provvedimento ha l'obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro di oltre 28 milioni di lavoratori

Gig Worker a prova di tutele? Ecco cosa dicono i giuslavoristi sulla nuova direttiva Ue
21 marzo 2024 | 16.25
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Dopo due anni di lavoro e non poche difficoltà ha visto la luce la nuova direttiva europea sul lavoro tramite piattaforme digitali. Il provvedimento, che poi dovrà essere applicato dagli Stati dell'Unione entro due anni dalla pubblicazione, ha l'obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro di oltre 28 milioni di Gig Worker, secondo dati forniti dalla stessa Commissione Europea nel 2022. Come sottolinea all’AdnKronos/Labitalia Luigi Birtolo, ad di People Spa e consulente del lavoro, "il quadro normativo che si sta delineando equiparerà, di fatto, i Gig Worker ai lavoratori ordinari prevedendo un possibile assorbimento di queste funzioni nella contrattazione collettiva già applicata ai vari settori merceologici".

La nuova direttiva è rivolta a regolamentare e migliorare le condizioni di lavoro dei cosiddetti Gig Worker, ossia quei lavoratori le cui attività sono in qualche modo riconducibili ad una piattaforma digitale, come per esempio i tanti rider impegnati nelle consegne nelle nostre città. Le principali novità introdotte riguardano il lavoro subordinato, l’uso dei dati e l’attenzione alla salute. "Il miglioramento delle condizioni di lavoro, contrastando il lavoro autonomo fittizio, passa attraverso - spiega l'avvocato Valentina Pepe, partner dello studio Pepe & Associati - l’introduzione di una 'presunzione legale' di subordinazione. I lavoratori, in presenza di alcuni 'indici presuntivi' che saranno individuati da ogni Stato, potranno invocare una 'presunzione legale' di subordinazione e spetterà, a questo punto, alla piattaforma digitale dimostrare che non esiste un rapporto di lavoro subordinato".

La direttiva poi disciplina l'uso degli algoritmi da parte delle piattaforme di lavoro digitali, prevedendo una supervisione umana che verifichi le decisioni automatizzate. Inoltre, questi sistemi non potranno essere utilizzati per il trattamento dei dati personali e per ricavare elementi come i dati biometrici o relativi allo stato emotivo o psicologico. Per l'avvocato Andrea Puccio, penalista e founding partner di Puccio Penalisti Associati, uno degli elementi più apprezzabili della direttiva è che pone in capo alle piattaforme digitali “l'obbligo di assicurare la sicurezza e la salute, anche mentale dei propri lavoratori". "La norma, tuttavia, si limita a prescrivere alle piattaforme digitali - spiega - di valutare se le garanzie dei propri sistemi automatizzati siano adeguate ai rischi individuati in considerazione delle caratteristiche specifiche degli ambienti di lavoro e di introdurre adeguate misure di prevenzione e protezione”. Anche se non fornisce indicazioni di dettaglio sui rischi da governare e su come gestirli.

Con l'introduzione da parte della nuova direttiva di un sistema articolato di tutele delle condizioni di lavoro prestato attraverso piattaforme digitali, sarà necessario anche prevedere una serie di controlli e verifiche. Come spiega l’avvocato Andrea Morone, Partner e Co-Head of Employment di Dwf Italy, “il provvedimento asseconda l'esigenza di più elevati standard di tutela per il lavoro mediante piattaforme digitali, facendo principalmente leva su due aspetti: la necessità che i lavoratori siano adeguatamente informati in merito all'uso di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati, così da rendere il più trasparente possibile l'interazione fra le piattaforme digitali e le prestazioni di lavoro; l'introduzione di una presunzione legale per effetto della quale il lavoro mediante piattaforme digitali è considerato di natura subordinata in presenza di fatti che indicano un potere di controllo o direzione, conformemente al diritto nazionale".

"Premesso che, sussistendone i presupposti, i datori di lavoro potranno comunque dimostrare il contrario, si tratta certo di una novità di non poco conto, costituendo un ribaltamento del principio generale del nostro ordinamento in base al quale l'onere di dimostrare la configurabilità di una situazione di subordinazione incombe sui lavoratori”, avverte.

I controlli richiesti dalla direttiva implicano interventi da parte dei singoli Paesi, come anche l'Italia, sia nell'ambito dei servizi ispettivi sia all'interno delle aziende private. "Dovranno essere formati Ispettori del lavoro - commenta l'avvocato Marco Chiesara, senior partner di Lexellent - che siano esperti di algoritmi e che finiranno per ispezionare le piattaforme digitali restando, probabilmente, seduti alle loro scrivanie. Allo stesso tempo, il processo di 'umanizzazione' delineato dalla nuova disciplina farà sì che le piattaforme digitali dovranno ripensare la loro organizzazione del lavoro. Dovranno infatti, assumere e/o formare del personale che sorvegli i sistemi di decisione automatizzati dell'algoritmo, conformandoli alla disciplina introdotta dalla Direttiva". L'interruzione del rapporto di lavoro tra la piattaforma e il Gig worker non potrà risolversi con una semplice disattivazione dell'account, ma necessiterà di un provvedimento scritto e motivato. Sarà anche necessario ripensare all'informativa sulla privacy delle piattaforme chiamata ad una maggiore chiarezza.

La reale portata della disciplina dipenderà da come i singoli Stati membri la declineranno. La direttiva, infatti, prevede che siano i Paesi dell’Unione europea a introdurla nelle rispettive legislazioni. Ma, come spiega l'avvocato Attilio Pavone, partner di Norton Rose Fulbright, "la scelta di affidare la soluzione ai singoli Stati porrà innanzitutto un problema di uniformità della disciplina giuridica". Gli elementi che faranno presumere la subordinazione in un paese - puntualizza - potrebbero non avere lo stesso valore in un altro, con tutte le possibili distorsioni e disparità di trattamento del caso". Inoltre, la delega ai singoli Stati finisce con il lasciare insoluta una questione teorica ma dagli importanti risvolti pratici: se cioè i rapporti di lavoro della gig economy dovranno essere ritenuti subordinati in base a specifici elementi, in base a un giudizio per così dire empirico, volto a individuare una sorta di subordinazione di tipo economico, oppure se tale scelta debba dipendere dal modo in cui le mansioni siano in concreto svolte, e cioè in sostanza in base al grado di invasività del potere di comando o di direzione del committente.

Nell'attuale legislazione italiana, ad esempio, si prevede che si debbano considerare subordinati i collaboratori coordinati e continuativi che svolgano, anche mediante piattaforme digitali, prestazioni lavorative organizzate dal committente. Ma non si può certo dire che sia immediatamente chiaro cosa ciò significhi in concreto, lasciando quindi significativi margini di incertezza interpretativa anche nel contenzioso giudiziale che si occupa della questione.

Come osserva l'avvocato Andrea Puccio, "in molti attendevano un testo normativo che consentisse di appianare le grandi differenze di tutela che i singoli ordinamenti nazionali apprestano in favore dei lavoratori della Gig economy". "Tali aspettative, tuttavia, sembrano trovare soddisfazione solo parziale. Uno dei principali scopi della direttiva, infatti, doveva essere quello di porre le basi per la regolamentazione delle cosiddette 'zone grigie' che caratterizzano numerosi ordinamenti nazionali, mediante l’individuazione di appositi criteri volti a scongiurare il fittizio inquadramento come lavoratori autonomi di soggetti che, nella sostanza, lavorano con le piattaforme digitali in posizione di subordinazione", conclude. Ma la non omogeneità tra normative nazionali porta con sé il rischio che gli operatori delle piattaforme digitali vadano a privilegiare i propri insediamenti negli Stati membri che si doteranno di una legislazione nazionale meno 'rigida'.

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