"E' difficile che il governo armeno guidato dal primo ministro Nikol Pashinyan possa sopravvivere" all'accordo di pace firmato con l'Azerbaigian che ha messo fine al conflitto nel Nagorno Karabakh. E' quanto sostiene Nona Mikhelidze, ricercatrice dell'Istituto Affari Internazionali (Iai), commentando in un'intervista all'Adnkronos gli ultimi sviluppi nella regione del Caucaso.
L'accordo entrato in vigore nella notte tra lunedì e martedì è stato firmato da Armenia, Azerbaigian e Russia dopo la caduta di Shusha, la seconda città del Nagorno Karabakh, in mano azera. Pashinyan ha definito l'intesa "dolorosa", con Baku che ha ripristinato la sua sovranità sui territori persi nella guerra degli anni Novanta. Dopo l'annuncio dello stop alle ostilità, un gruppo di manifestanti ha preso d'assalto il Parlamento ed altri edifici governativi a Erevan, la capitale armena, accusando Pashinyan di tradimento.
"In realtà già mi sarei aspettata le dimissioni del governo armeno, anche se non le auspico perché Pashinyan è il primo ministro più democratico che il Paese abbia mai avuto", afferma Mikhelidze, secondo la quale la popolazione dovrebbe capire che "ora c'è bisogno di unità" anche se "temo che le proteste andranno avanti". "La decisione di fermare le ostilità è stata un atto di responsabilità" e se c'è un errore che Pashinyan ha fatto, spiega, è stato quello di "non aver preparato gli armeni alla sconfitta", che era annunciata vista l'evidente differenza delle forze militari in campo.
Secondo l'esperta dello Iai, la Russia è la vera vincitrice del conflitto, in quanto "non ha permesso ad alcun attore esterno di intervenire nella soluzione del conflitto", escludendo anche il Gruppo di Minsk, i cui tre tentativi di cessate il fuoco, precedenti l'intesa trilaterale, sono tutti falliti.
"La Russia ha ribadito di essere l'unico attore geopolitico nel Caucaso", malgrado il tentativo turco di intestarsi la vittoria, analizza Mikhelidze, sottolineando che l'Armenia, per tutta una serie di motivi, è stata in un certo senso 'tradita' dal presidente Vladimir Putin.
"L'Azerbaigian si preparava da sempre a questo conflitto, acquistando armi israeliane, russe e turche grazie ai proventi delle risorse energetiche", ma il fattore decisivo in questa guerra - evidenzia l'esperta - è stato il sostanziale "semaforo verde" di Putin all'offensiva di Baku e questo nonostante Mosca ed Erevan siano legati da una serie di accordi militari bilaterali e nel quadro dell'Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva.
La Russia ha fatto leva sul fatto che il diritto internazionale considera il Nagorno Karabakh territorio azero e quindi tecnicamente il territorio armeno non è stato attaccato, fatto quest'ultimo che avrebbe portato Mosca ad intervenire precludendo ogni possibilità di vittoria azera, aggiunge MiKhelidze, secondo cui l'Armenia si sente "tradita" dal suo alleato.
Il comportamento russo, rimarca Mikhelidze, è legato anche all'azione del governo Pashinyan, che fin dall'inizio si è contraddistinto per la "lotta alla corruzione". "Diversi oligarchi armeni vicini ai russi come l'ex presidente Robert Kocharyan sono stati arrestati e questo non è andato giù a Putin", oltre a "gettare un'ombra sui rapporti bilaterali".
Mosca, conclude l'analista, ha avuto quindi un doppio vantaggio dalla guerra nel Nagorno Karabakh: da una parte "Putin si è quasi sbarazzato di un leader scomodo come Pashinyan", dall'altra è riuscita a posizionare nel Caucaso i suoi peacekeeper, confermando la sua egemonia regionale.