Al premier time alla Camera le risposte sulla strategia del governo
Nessun tema come le privatizzazioni si presta a interpretazioni diametralmente opposte. Il dibattito è da sempre alimentato da mercatisti e statalisti, contrapponendo maggioranze e opposizioni di fronte all'eterno dilemma: sono svendite per fare cassa o uno strumento per fare politica economica? E, ancora, portano un vantaggio al Paese o lo impoveriscono? Anche il premier time di oggi alla Camera è stato occasione per la replica di uno schema ormai collaudato. L'opposizione chiede conto delle ipotesi che riguardano i gioielli di Stato, dalle Poste alle Fs, la premier Giorgia Meloni risponde con fermezza, chiamando in causa quelle che definisce regalie del passato, con un riferimento esplicito alla privatizzazione di Telecom, iniziata con il governo Prodi nel 1997 e chiusa dall'opa della cordata di Roberto Colaninno con il governo D'Alema, nel 1999.
Le parole di Giorgia Meloni sono particolarmente affilate. ''Noi vogliamo ridurre la presenza dello Stato dove non è necessaria e affermarla negli asset strategici. E' un approccio che non si avvicina neanche lontanamente a quelli del passato, che erano regali a qualche fortunato e bene inserito imprenditore, come si fece con gli oligarchi russi dopo l'Unione sovietica...''. E' questo il riferimento alla vicenda Telecom che vuole segnare, nelle intenzioni della premier, una netta discontinuità rispetto a esperienze precedenti. Contestualmente, fa riferimento anche all'altra critica principale che solleva chi esprime dubbi rispetto alla scelta di ricorrere al mercato. ''Il governo, come peraltro scritto nella Nadef, lavora a un piano di razionalizzazione delle partecipazioni dello Stato dalle quali sono attesi proventi pari a circa 20 mld in tre anni, è un obiettivo ambizioso ma alla nostra portata. Queste operazioni non devono avere come unico scopo di fare cassa per ridurre il debito pubblico, ma devono essere considerate un fattore di sviluppo della politica industriale italiana".
Giorgia Meloni ricorda l'esperienza Mps. ''Dopo l'annuncio della procedura di vendita accelerata del 20% delle azioni rivolta ai grandi investitori, nel giro di poche ore noi abbiamo ricevuto una domanda di oltre 5 volte superiore all'ammontare iniziale e rivisto l'offerta dal 20 al 25%''. L'operazione, sostiene la premier, ''dimostra un interesse per il sistema Italia ed è stato anche un bel segnale per gli italiani che dopo anni che hanno visto uscire miliardi di euro che andavano al Monte Paschi di Siena, hanno visto anche rientrare una parte di quelle risorse''. Ci sono però differenze sostanziali tra la privatizzazione delle banca senese e le ipotesi che si fanno in questi giorni. Primo, la dismissione della quota del Tesoro in Mps è stata imposta dalla Ue, dopo la nazionalizzazione del 2017 per salvare l'istituto. L'Italia ha assunto un impegno con Bruxelles e quell'impegno consente di riportare sul mercato una banca che era già privata. Nel caso delle più importanti partecipate, come Poste e Fs, si tratterebbe di ridurre la partecipazione pubblica, mantenendone il controllo, cedendo quote sul mercato. Sono grandi aziende che funzionano e che non vanno salvate ma, al contrario, sostenute nel loro ulteriore sviluppo.
Le risorse servono per poter finanziare la politica economica e per iniziare una riduzione credibile del debito pubblico. Le privatizzazioni sono uno strumento utile per portare denaro in cassa. Ma non tutte le società controllate dallo Stato si prestano a una cessione 'indolore' delle quote pubbliche. Solo rimanendo alle più grandi, Poste, Fs ed Eni, sia per i valori attuali di Borsa sia per le caratteristiche del business, si prestano a soluzioni percorribili con relativa facilità. Anche se nel caso di Fs andrebbe stabilito cosa privatizzare e cosa no, essendoci la rete da preservare. In altri due casi, come Enel e Leonardo, è più difficile pensare a operazioni a breve termine. La società elettrica sarebbe facilmente esposta al rischio di scalata con una riduzione ulteriore della quota pubblica, che è già sotto il 25%; il colosso della difesa opera in un settore che, per definizione, richiede una maggiore cautela. C'è però una discriminante più generale da considerare. Le privatizzazioni sono uno strumento e non un fine e per questo vanno inserite in una politica economia, e industriale, coerente. (Di Fabio Insenga)