Ambiente, Social e Governance sono sempre più fondamentali per le aziende, anche nei mercati emergenti
La sostenibilità sta diventando per le imprese sempre più un imperativo. E l’aspetto ambientale è via via affiancato da altri due fattori quali l’aspetto sociale e la governance. Una tendenza, questa, che riguarda anche i mercati emergenti. Ovunque ormai nel Mondo le aziende stanno capendo che non basta una spennellata di responsabilità sociale o di ecologismo per mantenersi competitivi in un mercato in cui i consumatori, e soprattutto quelli dei Paesi meno ricchi, sono sempre più esigenti su questi aspetti e non accettano scorciatoie.
Uno studio di Boston Consulting Group indaga proprio il ruolo sempre più significativo che hanno i fattori Environmental (Ambiente), Social e Governance (ESG) nelle politiche aziendali, anche nei mercati emergenti.
Il risultato, in estrema sintesi, è che le aziende stanno realizzando che la sostenibilità è sempre più rilevante per le loro performance. E che esiste una forte correlazione tra i punteggi ESG delle imprese, anche quelle dei mercati emergenti, e gli indicatori di performance economica.
Le aziende con grande reputazione nei fattori ESG hanno maggiori possibilità di crescita, clienti più soddisfatti e un miglior accesso al mercato e al credito, inoltre sono più attrattive per i (giovani) talenti. Al contrario, quelle che non colmano il gap con i competitor più sostenibili sperimentano un netto svantaggio in ogni mercato, interno ed estero.
Il concetto di ESG non è nuovo, se ne parla dagli anni ’70 quando le multinazionali iniziarono ad adottare standard legati alla ‘Responsabilità sociale d’impresa (la ‘Corporate Social Responsibility’, CSR)’. Si è poi evoluto, e ha guadagnato forza negli ultimi dieci anni grazie anche all’azione regolatoria delle istituzioni Usa e Ue che hanno stabilito standard man mano più stringenti anche nelle norme commerciali, sottoponendo le imprese a una pressione regolatoria in crescita.
Allo stesso modo, ormai molti enti e organizzazioni pubblicano rating sulle aziende basati sia su criteri ambientali come l’impronta carbonica e la gestione di energia e rifiuti, sia su fattori sociali tra cui i diritti umani e le condizioni lavorative, sia infine su fattori di governance quali la trasparenza, i diritti degli stakeholders e la responsabilità d’impresa.
Occorre precisare che le performance ESG non sono semplici da misurare, intanto perché i dati forniti dalle aziende potrebbero nascondere o edulcorare il loro reale business ed essere solo dei tentativi di greenwashing. Un termine ormai in voga che indica un ecologismo di facciata e l’uso di precise strategie di comunicazione che mirano a costruire un'immagine ingannevole dell’impresa (ma anche di enti e istituzioni) come ambientalmente impegnata, e che servono a nascondere all’opinione pubblica il vero impatto sugli ecosistemi.
Inoltre applicare gli stessi criteri ESG indistintamente alle imprese dei Paesi sviluppati e a quelle dei Paesi emergenti è fuorviante, visto che i rispettivi mercati si trovano a differenti stadi di sviluppo economico e affrontano sfide sociali ben diverse.
Nonostante ciò, i rating ESG sono sempre più usati dalle istituzioni finanziarie per orientare i propri investimenti e le proprie decisioni. Secondo una ricerca di Morgan Stanley, l’85% degli investitori presta attenzione alla sostenibilità, nelle sue tre declinazioni, per decidere la propria strategia, e ha iniziato a disinvestire in aziende con bassi punteggi nei fattori ESG.
Dalla ricerca di BCG emerge un ritardo significativo dei mercati emergenti in tutte e tre le componenti ESG: laddove i Paesi del G20 registrano uno score di 64, le aziende dei 10 Paesi considerati dallo studio (Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa e Turchia) si fermano a 48. Le performance peggiori si riscontrano nella parte ambientale, specialmente a causa delle emissioni di CO2 e dell’inefficiente uso delle risorse.
Va anche considerato che nei Paesi emergenti le politiche che regolano i mercati sono concentrate sulla crescita piuttosto che sull’impatto ambientale, e sono in generale meno mature circa questi aspetti. Inoltre non si può dimenticare che i Paesi sviluppati hanno basato la propria crescita su industrie e logistica altamente inquinanti senza preoccuparsene, che per decenni hanno ‘delocalizzato’ le attività più impattanti nei Paesi poveri e che hanno utilizzato (e utilizzano) questi ultimi come pattumiera per molti dei propri rifiuti.
Al momento tuttavia non ci sono criteri di misurazione delle performance ESG condivisi che tengano conto delle differenti situazioni di partenza e attuali tra Paesi emergenti e Sviluppati, e questo contribuisce al gap di sostenibilità che si registra tra le loro aziende.
Tra i tre pilastri della sostenibilità, quello ambientale sta ricevendo man mano maggiore attenzione anche tra le aziende dei mercati emergenti. D’altronde questi Paesi, nonostante inquinino meno di quelli sviluppati, stanno patendo le conseguenze più pesanti del cambiamento climatico. E quindi hanno tutto l’interesse a cercare di contrastare l’impatto delle attività economiche.
Ma il punto fondamentale è che profitto e sostenibilità non sono in contraddizione tra loro, anzi sono sempre più strettamente correlate. E le aziende hanno cominciato a capirlo.
Innanzitutto, chi sta sviluppando i propri standard ESG ha un vantaggio competitivo nel caso di future più stringenti condizioni per il commercio. Inoltre, ha un più facile accesso al credito e a condizioni migliori, oltre a migliorare la propria reputazione verso i talenti in cerca di lavoro e verso i consumatori.
Un aspetto questo molto rilevante nei Paesi emergenti: qui infatti la popolazione è costituita soprattutto da giovani e giovanissimi, che sono più sensibili alle tematiche Esg. Come rilevato da un’analisi del Center for Customer Insight di BCG, il 77% dei consumatori dei mercati emergenti è attento alla sostenibilità di che ciò che mangia contro il 53% di quelli nei Paesi sviluppati. E più dell’80% valuta l’impatto del proprio stile di vita. Un aspetto che influenza le scelte di acquisto, anche se poi pochi accetterebbero di spendere maggiormente per un prodotto sostenibile.
Quanto alla ricerca di talenti da assumere, lo studio di BCG rileva che circa il 70% della Generazione Z (i nati dalla seconda metà degli anni ’90) è attento agli aspetti della sostenibilità nella scelta del proprio impiego. E con un’età media di 28 anni nei Paesi emergenti a fronte di 41 in quelli sviluppati, il tema non potrà più essere trascurato.