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Gaza, cooperante a Khan Yunis: "Tanta rabbia durante il rilascio degli ostaggi, l'Italia ci aiuti"

'La Jihad islamica non è riuscita a tenere a bada la folla. Noi speriamo solo che la tregua regga. Il governo italiano ci aiuti con la ricostruzione e faccia pressione su Israele perché rispetti il cessate il fuoco''

Gaza, cooperante a Khan Yunis:
30 gennaio 2025 | 16.41
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C'è ''tanta gente a Khan Yunis'', molta più di quanto non ce ne sia a Gaza City. E c'è anche ''tanta rabbia'', come si è visto dalle scene caotiche trasmesse oggi dalla città a sud della Striscia di Gaza durante il rilascio degli ostaggi israeliani Arbel Yehoud e Gadi Moses. ''Ci sono passato vicino mentre tornavo dal lavoro. Ho visto tanta confusione, miliziani incappucciati e armati, tanta folla che la Jihad islamica palestinese non è riuscita a tenere a bada. Hamas ha organizzato meglio quello che è lo 'show' del rilascio degli ostaggi'', ha dichiarato al telefono all'Adnkronos da Khan Yunis il cooperante Sami Abu Omar. ''Ho cercato di restare a una certa distanza, circolano molte armi in situazioni come queste, non si può mai sapere cosa può accadere'', ha aggiunto.

A dicembre del 2023 Sami Abu Omar era stato costretto a lasciare la sua casa a Khan Yunis e a camminare per 14 chilometri per trasferirsi a Rafah, secondo gli ordini dell'esercito israeliano, insieme alla moglie e ai sette figli, il più grande ha 27 anni e il più piccolo 13. Una volta rientrato a Khan Yunis ha scoperto che della sua casa erano rimaste solo macerie, distrutta dai raid aerei israeliani. ''Ora viviamo da un parente, tutti in una stanza. Ma è una sistemazione temporanea, fino a quando non riusciremo a sistemarci in una tenda o, chissà, in un caravan'', spiega. ''Ora la situazione è più tranquilla'' e ''la speranza è che l'accordo di cessate il fuoco regga. Ne abbiamo bisogno noi palestinesi e ne hanno bisogno gli israeliani''. Il cooperante rivolge quindi un appello ''ai governi europei e in particolare a quello italiano: l'Italia ci dia una mano per la ricostruzione, per mettere a posto gli ospedali e scuole. E faccia pressione su Israele, per garantire la continuità della tregua''.

''Nemmeno nei nostri peggiori incubi avremmo potuto immaginare di vivere quello che abbiamo vissuto, sono stati momenti molto difficile'', racconta. ''Ora ci affidiamo alla speranza, non possiamo perderla perché senza speranza non c'è vita'', aggiunge. I suoi due figli maggiori hanno dovuto sospendere gli studi universitari in ingegneria e odontoiatria, quelli più piccoli ''hanno perso due anni di vita scolastica''. Ma lui da due mesi, racconta, ''ho un nuovo lavoro presso la clinica di Emergency nella zona umanitaria di Khan Yunis, vicino al porto di al-Qarara''. Qui lavorano anche ''sei italiani, insieme ad altro staff medico internazionale e locale''. La missione della clinica è quella di ''fornire un servizio di primo soccorso alle persone sfollate, quelle che vivono nei campi profughi vicini. Abbiamo anche una farmacia''.

La situazione, quindi, ''ora è più tranquilla, ma per la ricostruzione ci vorrà ancora tempo. In base a quanto stabilito inizierà nella terza e ultima fase dell'accordo''. Nel frattempo, ''il valico di Rafah resta ancora chiuso. Stanno per fortuna entrando aiuti umanitari, tanto scatolame, e sono scesi i prezzi, ma non arriva materiale per la ricostruzione e manca l'elettricità. Aspettiamo e speriamo, non possiamo fare altro''.

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