Il calcio si evolve rapidamente, non basta più la capacità di motivare e comunicare
Leader indiscusso, grande motivatore, ottimo comunicatore. A Roma ha costruito un legame profondo con la tifoseria e con la città. A Mourinho manca però un riscontro fondamentale per un allenatore di calcio, quello del campo. La crisi conclamata che sta attraversando la sua squadra è esclusivamente tecnica e ha trovato nella sconfitta con il Genoa la sua rappresentazione plastica.
E' una crisi che viene da lontano, nonostante le due grandi annate in Europa, e prima ancora che in un gioco inesistente, si legge nei numeri. Da aprile 2023, la Roma ha giocato in campionato 14 partite di campionato: 8 nello scorso campionato e 6 in questo appena iniziato. Ha vinto 2 partite, ne ha pareggiate 6 e ne ha perse 6. Vuol dire fare 12 punti su 42 disponibili. E' una media da retrocessione.
La domanda da porsi è se la crisi di Mourinho sia irreversibile o se si possa pensare a una reale inversione di tendenza. La Roma tornerà a fare punti, prima o poi. Ma chiedersi se Mourinho sia ancora in grado o meno di fare un calcio che possa competere con le conoscenze degli altri non è un'eresia. La principale obiezione alle critiche sulla progressiva involuzione tattica e tecnica del progetto di Mourinho alla Roma è sempre stata: conta il risultato. E la vittoria della Conference League, insieme alla finale di Europa League dello scorso anno, sono risultati importanti e sono risultati di Mourinho prima ancora che della Roma. Quel percorso in Europa poteva farlo solo lui, saldando il 'mourinismo' al 'romanismo', come lo chiama lui. Resterà per questo nella storia della Roma.
E' il Mourinho che sa vincere comunque. In campionato però, corsa lunga dove improvvisare e strappare risultati senza il gioco è più complicato, proprio i risultati dicono il contrario. La partita di Genova, e prima ancora una sequenza di altre partite, dicono che squadre di medio valore, preparate tatticamente e fisicamente, prevalgono su una squadra che ha sicuramente un livello tecnico superiore ma che è senza organizzazione di gioco e senza una adeguata preparazione tattica. I calciatori, con la componente agonistica e con le motivazioni che possono prevalere sulle doti tecniche, ci mettono il resto. Ma la responsabilità finale non può che essere dell'allenatore.
E qui entra in gioco la storia di Mourinho, che va letta interamente. Ha vinto tutto, e ovunque. Gli ultimi dieci anni però, dal Chelsea in poi, passando per Manchester United e Tottenham e fino alla Roma, sono fatti di cicli molto simili tra loro, nella durata, nella proposta di gioco e nei risultati.
Con un'altra evidenza. Mourinho vince quando ha giocatori adatti a lui, e quando costruisce gruppi pronti a immolarsi per lui. Quando l'energia che nasce dalla somma di questi due fattori finisce, le squadre di Mourinho si spengono. Nel frattempo, il calcio sta cambiando velocemente. E in giro ci sono allenatori grandissimi, e giovani allenatori, che lo conoscono a fondo perché lo studiano, lo cambiano, lo adattano continuamente. Mourinho invece è sempre uguale a se stesso. Nel bene e nel male. E forse non basta più. (Di Fabio Insenga)