A rischio la metà delle colture entro il 2050: largo al caffè prodotto in laboratorio
A rischio la metà delle colture entro il 2050: largo al caffè prodotto in laboratorio
Per molti “la vita inizia dopo il caffè”. A breve, potrà iniziare dopo una bella tazza di caffè sintetico, caffè prodotto in laboratorio. Nessuna stregoneria o alterazione, ma solo una constatazione: nel mondo, ogni giorno vengono consumate circa due miliardi di tazzine e la produzione presto sarà insufficiente.
Resistere al suo profumo e alla caffeina è, per miliardi di persone, impossibile. Così come è impossibile non tenere conto della scarsa sostenibilità, sociale e ambientale, di questa bevanda. Un’analisi del Wall Street Journal spiega perché il passaggio, almeno parziale, al caffè sintetico è inevitabile.
La definizione fa più paura di quanto non dovrebbe. Per caffè prodotto in laboratorio, o sintetico, si intende, infatti, coltivare i chicchi in ambienti artificiali, utilizzando gli stessi bioreattori che oggi vengono sperimentati per coltivare piante a bordo delle Stazioni Spaziali.
I rischi del cambiamento climatico sul caffè sono ben noti agli addetti ai lavori, tanto che la qualità più pregiata, l’Arabica, è stata sequenziata geneticamente per preservarla di fronte ai rischi di un clima sempre più estremo.
Una decina di aziende sta perfezionando la produzione di caffè in laboratorio, mentre grossi marchi commerciali, come Starbucks, stanno finanziando operazioni di rafforzamento genetico dei semi così da renderli resistenti al cambiamento climatico creando dei semi “proprietari”.
Una startup di Seattle, Atomo Coffee, ha individuato e catalogato, le singole molecole che conferiscono al caffè le sue inconfondibili caratteristiche organolettiche. In seguito, le ha sostituite in laboratorio con sostanze di origine vegetale ottenendo una bevanda un po’ meno amara ma del tutto simile al caffè convenzionale. Questo perché “L’esperienza che otteniamo dal caffè – spiega Adam Maxwell, ceo di Voyager Foods - è in realtà guidata dal processo utilizzato per produrli”. Insomma, il gusto dipende più dalla tostatura che dal chicco in sé.
Molto più dolce, invece, è il conto ambientale: l’esperimento di Atomo Coffee ha generato il 93% in meno di emissioni di carbonio e il 94% in meno di acqua utilizzata rispetto al caffè tradizionale.
Questa preziosa bevanda non è sostenibile sia da un punto di vista sociale, che ambientale. Secondo la National Coffee Association, il caffè viene oggi coltivato in oltre cinquanta Paesi del mondo, per lo più situati nella cosiddetta “Bean Belt”, la “cintura dei chicchi di caffè”, che copre le zone tropicali di America, Africa e Asia.
Quasi il 90% della produzione mondiale si concentra in dieci Paesi guidati dal Brasile, seguito da Vietnam, Colombia, Indonesia ed Etiopia.
Spesso, chi è impiegato nella raccolta dei chicchi, lavora in condizioni climatiche avverse e subisce legislazioni nazionali poco attente alla tutela dei lavoratori. Per usare un eufemismo.
“Produrre in massa il caffè convenzionale incide negativamente sull’ambiente e implica lo sfruttamento del lavoro delle comunità locali”, sintetizza Heiko Rischer, del VVT Technical Research Centre, in Finlandia.
Il problema ambientale è altrettanto composito.
Innanzitutto, a una crescente richiesta di caffè corrisponde una maggiore deforestazione, cui va aggiunto il consumo idrico richiesto dalle piantagioni.
Inoltre, secondo le analisi del Wall Street Journal, il cambiamento climatico potrebbe fare presto la sua parte per rendere impossibile, o molto difficile, la coltivazione del caffè. Se, come sembra, non ci sarà un calo del consumo, entro il 2050 circa il 50% delle terre che oggi producono caffè potrebbero diventare inadatte alla coltivazione e in Brasile, il primo Paese produttore, la percentuale potrebbe salire addirittura fino all'88%. Questo si tradurrebbe in una drastica riduzione dell'offerta, con un conseguente aumento dei prezzi. Fenomeno che, in parte, si sta già verificando.
Una pianta del caffé Arabica produce fra i 450 e i 900 grammi di materia prima l'anno. Questo vuol dire che se una persona beve due tazzine di caffè al giorno ha bisogno dell’intera produzione di circa 20 alberi di caffè ogni anno. Una produzione che il cambiamento climatico rende impossibile.
D’altronde il caffè non è da solo. Analoghe problematiche ambientali sono sempre più diffuse nel mercato della carne, il principale responsabile dell’emissione di gas serra, e del cacao, che ha raggiunto prezzi record. Le colture di cacao sono molto sensibili ai cambiamenti climatici: circa il 70% di questo alimento proviene dall’Africa occidentale, una delle regioni che sta subendo maggiormente gli effetti del cambiamento climatico.
C’è un rischio concreto che con il caffè avvenga la stessa cosa, in proporzioni persino maggiori. Le strade sono due: contenerne il consumo, e produrre il caffè in laboratorio. Meglio se utilizzate insieme, così da ridurre al minimo la necessità di creare caffè sintetico, che verosimilmente avrà costi piuttosto sostenuti. Il prezzo del caffè in laboratorio potrà essere più alto di quello attuale, ma molto più basso di quello del 2050.
Senza che l’effetto e il gusto del caffè subiscano chissà quali conseguenze. E soprattutto preservando le persone e il pianeta. Magari, qualcuno tra trent’anni guarderà il cielo e, sorseggiando la sua tazzina, si libererà in un canto: “Ah, che bell' 'o cafè, pure in laboratorio 'o sanno fa”.