'Dopo 10 anni di sola chemioterapia l'aggiunta di durvalumab migliora efficacia e qualità di vita'
"Dopo oltre un decennio di attesa di nuove opzioni terapeutiche, per i tumori delle vie biliari questo regime a base di immunoterapia cambia lo standard di cura in prima linea. La chemioterapia era rimasta l'unica arma per più di 10 anni. Con l'aggiunta dell'immunoterapia abbiamo visto un miglioramento di efficacia, è migliorata la sopravvivenza, è migliorata la sopravvivenza libera da progressione di malattia ed è migliorato il tasso di risposta. Tutto questo a fronte di un buon profilo di tollerabilità e di un mantenimento della qualità di vita". Lo ha detto Lorenza Rimassa, professore associato di Oncologia medica all'Humanitas University, Irccs Humanitas Research Hospital di Rozzano (Milano), intervenendo questa mattina nel capoluogo lombardo a una conferenza stampa promossa da AstraZeneca in occasione dell'approvazione, da parte dell'Aifa, al rimborso per l'immunoterapia con durvalumab in prima linea in due neoplasie del fegato - carcinoma epatocellulare e tumori delle vie biliari - in stadio avanzato non resecabile e metastatico.
L'approvazione del trattamento nelle neoplasie delle vie biliari è avvenuta in base ai risultati dello studio Topaz-1 di fase 3 che "ha coinvolto 685 pazienti - spiega l'oncologa - dimostrando che durvalumab in combinazione con la chemioterapia (gemcitabina più cisplatino) è in grado di migliorare la sopravvivenza nel trattamento di prima linea. La combinazione ha evidenziato anche una riduzione del rischio di progressione e un miglior tasso di risposte, senza alterare la qualità di vita rispetto alla sola chemioterapia". Nel dettaglio lo studio di Topaz-1, pubblicato sul 'New England Journal of Medicine Evidence', dimostra che durvalumab più chemioterapia ha ridotto del 24% il rischio di morte rispetto alla sola chemioterapia, con una stima di pazienti ancora in vita a 2 anni dall'inizio del trattamento più che raddoppiata (23,6% rispetto a 11,5%).
Il tumore delle vie biliari "non è un unico tumore - precisa Rimassa - E' una malattia molto eterogenea: abbiamo il tumore delle vie biliari intraepatiche, come il colangiocarcinoma che è il secondo tumore più frequente del fegato dopo l'epatocarcinoma, e i tumori delle vie biliari extraepatiche che si suddividono in altri due sottogruppi, quindi le neoplasie della colecisti. Sono tumori molto diversi che riconoscono fattori di rischio diversi. Le forme intraepatiche hanno dei fattori di rischio simili a quelli dell'epatocarcinoma, le forme extraepatiche o della colecisti hanno fattori di rischio diversi. A differenza dell'epatocarcinoma, che si sviluppa da una malattia cirrotica, nella maggior parte dei casi, il colangiocarcinoma insorge senza fattori di rischio e questo è un grossissimo problema perché sono pazienti non in sorveglianza, come quelli con cirrosi o altre patologie. Nella maggior parte dei casi la diagnosi avviene per caso, perché si fa magari un'ecografia dell'addome per altri motivi, e il tumore è in fase avanzata, dove la terapia medica, fino a pochissimo tempo, si basava solo sulla chemioterapia".
La cosa particolarmente rilevante per l'oncologa è che "aggiungiamo l'immunoterapia alla chemioterapia, ma non modifichiamo la qualità di vita che, addirittura, sembra anche un po' migliorare anche aggiungendo un terzo farmaco - sottolinea Rimassa - E questo è estremamente importante per questi pazienti perché miglioriamo i risultati e non andiamo a gravare o non diamo un impatto in termini di tollerabilità o di qualità di vita. E questo, salvo controindicazioni, è lo standard per tutti i pazienti, sia con malattia intraepatica sia con malattia extraepatica che della colecisti, quindi di fatto per tutti i pazienti con tumore delle vie biliari".
Questi "sono tumori rari - rimarca la specialista - rappresentano circa il 3% dei tumori del tratto gastroenterico. In Italia abbiamo poco più di 5mila casi all'anno, però il colangiocarcinoma è in costante aumento di incidenza ed è un tumore per il quale non riconosciamo dei fattori di rischio ben definiti, non abbiamo la possibilità di effettuare degli screening e abbiamo un'elevata mortalità".
In chiusura si è ricordato che, in attesa della rimborsabilità, per cui ci vogliono in media 2 anni, con la formula dell'uso compassionevole l'azienda può mettere a disposizione il farmaco dei pazienti che possono così accedere alla cura. "E' una cosa estremamente importante - conclude Rimassa - Non tutte le aziende lo fanno gratuitamente. Ma nel nostro caso, abbiamo trattato 1.500 pazienti con tumore delle vie biliari a costo zero per pazienti e ospedale, ma anche per la ricerca perché si sono confermati nella 'real life' i risultati degli studi clinici".