Si stima siano oltre 100mila le persone colpite da cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva in Italia, ma di queste, solo circa 15mila hanno ricevuto una diagnosi corretta. Nei restanti casi, i sintomi sono confusi con quelli di altre malattie a carico del cuore o sono sottovalutati. La patologia, che causa l’ispessimento del muscolo cardiaco, presenta infatti segnali comuni a molte altre condizioni cliniche. Oggi esiste una molecola, mavacamten, già disponibile negli Stati Uniti e in corso di registrazione in Europa, che ha mostrato un importante potenziale nell’offrire un miglioramento rapido e duraturo di alcune anomalie cardiache chiave nei pazienti che vivono con questa malattia cronica, talvolta progressiva. Alla patologia e alle nuove prospettive nel trattamento è dedicato oggi un media tutorial virtuale, promosso da Bristol Myers Squibb.
“La cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva è una malattia genetica molto diffusa – afferma Iacopo Olivotto, professore ordinario di Cardiologia all’Università degli Studi di Firenze e direttore della Cardiologia pediatrica dell’Aou Meyer –: le proteine del cuore vengono alterate con un aumento anomalo della loro attività contrattile. La patologia causa un importante ispessimento delle pareti del muscolo cardiaco e un aumento sproporzionato del consumo di energia, che nel lungo termine può avere conseguenze anche molto gravi”.
I sintomi più comuni: palpitazioni, stanchezza, affanno e difficoltà a svolgere esercizio fisico, soprattutto dopo i pasti. “Più raramente – ancora Olivotto - si presentano sincope, angina e dispnea. Nelle forme cosiddette ostruttive, può anche esistere un ostacolo all’uscita del sangue dal ventricolo sinistro, che, in alcuni casi, necessita di una correzione chirurgica. Esistono, però, anche casi lievi e del tutto asintomatici. Questo rende ancora più complessa la diagnosi, soprattutto nei giovani. La malattia viene in genere diagnosticata intorno ai 40 anni, ma è spesso già presente fin dall’adolescenza. La medicina sportiva è in grado di riconoscerla in stadi asintomatici grazie agli esami previsti per gli atleti, soprattutto l’Ecg, ed è in grado di ridurre in modo significativo i casi di morti improvvise durante le competizioni sportive. Questa malattia compromette la qualità della vita, perché può rendere difficoltose anche le attività più semplici. Molto spesso è questo il primo segnale che spinge i pazienti a effettuare un controllo dal proprio medico”.
La malattia genetica familiare cardiaca più frequente è per lo più trasmessa con modalità autosomica dominante. "Il test genetico è indicato per ogni paziente - sottolinea il cardiologo - anche se non tutti scelgono di effettuarlo. Risulta positivo in circa la metà dei casi ed è utile per studiare gli altri componenti della famiglia. Nel rimanente 50% dei malati il test è negativo, il che significa che la malattia potrebbe essersi sviluppata su base poligenica. In mancanza di un unico gene responsabile, sui familiari possono essere svolti solo gli screening clinici, quindi con Ecg, nell’adulto circa ogni 5 anni, negli adolescenti più spesso, perché per età sono a rischio di sviluppare la patologia anche se ancora asintomatici. Il test sui familiari permette di identificare chi deve essere seguito nel tempo. Si tratta di esami estremamente sensibili, che oggi possono essere svolti in modo rapido, ma di complessa interpretazione: per questo è molto importante avvalersi di un genetista con esperienza specifica in cardiopatie”.
In Italia esistono diversi centri di cura con esperienza specifica per questa patologia e per altre cardiopatie genetiche. “Già dagli anni ’90 la cultura relativa alla cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva si è diffusa moltissimo, siamo uno dei Paesi in grado di trattarla al meglio – continua Olivotto –. È fondamentale, però, che i pazienti si rivolgano ai centri dedicati, che hanno molta più esperienza nel riconoscere i sintomi, fornire corrette informazioni e individuare il migliore trattamento. La chirurgia è consigliata solo per le forme ostruttive gravi e implica il ricovero in centri di eccellenza, perché è un intervento raro. Per molti di questi pazienti è necessario l’impianto di un defibrillatore salvavita. La maggior parte dei casi richiede invece una terapia farmacologica, che fino a oggi è stata costituita da betabloccanti, calcioantagonisti e antiaritmici, sviluppati per altre patologie".
"La prima terapia sviluppata espressamente per la cardiomiopatia ipertrofica, il mavacamten - spiega - è un modulatore allosterico orale first-in-class della miosina cardiaca, i cui dati clinici convalidano il promettente potenziale quale importante opzione di trattamento per pazienti sintomatici con la forma ostruttiva”.