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Professioni: temporary management? Imprese ancora dubbiose

Maurizio Quarta managing partner di Temporary Management & Capital Advisors
Maurizio Quarta managing partner di Temporary Management & Capital Advisors
24 novembre 2015 | 11.45
LETTURA: 4 minuti

Dall'organizzazione delle risorse umane alla finanza e al commerciale. Sono diverse le aree in cui, in questi ultimi anni, è intervenuto il temporary management, anche se non mancano resistenze da parte delle imprese. Un utilizzo in crescita, dal 10% al 16% del campione totale, con punte del 33% per le aziende più grandi. E' quanto emerge da un'indagine promossa da Leading Network, realizzata in collaborazione con Institute of interim management Italy, con il supporto istituzionale di Gidp, Manageritalia e L’Impresa, per la parte editoriale, e presentata oggi a Milano.

"Per quanto riguarda le aree di utilizzo -dice a Labitalia Maurizio Quarta, managing partner di Temporary Management & Capital Advisors- il maggiore interesse da parte di aziende grandi ha portato a un incremento di ruoli di primo riporto funzionale: se infatti, nel 1995, ben il 60% dei progetti riguardava ruoli di direzione generale, oggi tale percentuale è scesa al 14%, con punte del 33% nella classe 20-50 milioni. Per quanto riguarda le singole funzioni, prevalgono ruoli legati alle operations (28%), alle risorse umane (24%) e alla finanza (20%)".

"L’elevata presenza -fa notare- di interventi legati alle risorse umane è dovuta soprattutto alle aziende più grandi, in cui tale percentuale supera il 33% (e con progetti legati soprattutto ad attività di tipo straordinario). L’area commerciale, gettonatissima nel 1995 con il 53%, è scesa oggi sotto il 10%".

"La durata prevalentemente (oltre 40%) -ricorda Maurizio Quarta- è quella 6-12 mesi. Significativi anche i progetti oltre i 24 mesi e quelli sotto i 6 mesi nelle aziende più grandi (25% in entrambi i casi). Per quanto riguarda le modalità con cui viene gestito il contratto, prevale il rapporto come free lance con partita Iva (o sua società) con il 42%, seguito a ruota dal contratto come dirigente a tempo determinato con un 23% dovuto soprattutto alla grande rilevanza tra le grandi aziende".

"La percezione positiva dello strumento del temporary management -sostiene- è decisamente aumentata nell’ambito dell’impresa familiare che vede nella figura professionale soprattutto un mezzo per portare in casa competenze di elevato profilo, altrimenti difficilmente accessibili, a costi certi e variabili".

"In un ipotetico percorso di razionalizzazione del bisogno -aggiunge- è sensibilmente aumentato il numero di pmi che riescono, autonomamente (magari in relazione all’ingresso di una nuova generazione più acculturata della precedente) o con l’ausilio di consulenti, a identificare una serie di problemi. Allo stesso modo, è aumentato il numero delle imprese che arrivano autonomamente a considerare il temporary management come una possibile soluzione ai problemi identificati, con una buon livello di razionalizzazione anche dei suoi limiti e delle sue aree di attenzione".

"La scarsa conoscenza -avverte Maurizio Quarta- resta l’elemento di maggiore ostacolo a una più ampia diffusione dello strumento, accoppiato, nel 1995 alle resistenze da parte dell’imprenditore, e oggi alla difficoltà di trovare la persona adatta".

"Per quanto riguarda quest’ultimo punto -sottolinea- una precisazione ottenuta attraverso approfondimenti diretti: la perplessità dell’azienda utilizzatrice non riguarda tanto gli aspetti hard relativi a competenze ed esperienze del manager, quanto piuttosto gli aspetti soft relativi alle reali motivazioni del manager e alla sua agenda personale che potrebbe non essere in linea con quella dell’azienda".

"Come sintesi -conclude- riporto due citazioni dalle interviste effettuate: 'tentativo di rimanere in azienda a prescindere dal contratto' e 'manca la cultura dell’uomo temporary, molti sono consulenti che cercano di sopravvivere e non sono pronti ad impegno a tempo e obiettivi determinati'”.

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