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Scarpe e bugie, ecco le prove dei giudici contro Stasi

Un sopralluogo all'esterno della villetta dei Poggi nel 2009 (foto Infophoto) - INFOPHOTO
Un sopralluogo all'esterno della villetta dei Poggi nel 2009 (foto Infophoto) - INFOPHOTO
12 dicembre 2015 | 16.02
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Alberto Stasi è colpevole. Il dubbio lungo più di otto anni si è sciolto nella pronuncia della Cassazione e mette fine a uno dei processi con rito abbreviato (ben cinque i gradi di giudizio) più controversi della storia recente. E' lui ad aver ucciso la fidanzata Chiara Poggi, colpita a pochi passi dalla porta d'ingresso della villetta di via Pascoli a Garlasco, trascinata e gettata lungo le scale che portano in cantina.

E' il 13 agosto 2007 sul pavimento restano le tracce delle mani insanguinate della vittima, 26 anni, colpita più volte con un'arma sconosciuta. Indossa un pigiama estivo, è lei probabilmente ad aprire la porta a chi le toglie la vita. Nulla manca nell'abitazione per giustificare un tentativo di furto, non ci sono tracce di estranei.

E' l'allora laureando alla Bocconi, oggi 31 anni commercialista, a scoprire il corpo e su di lui puntano da subito le indagini. Tra perizie e consulenze di parte, tra nuovi esami chiesti dai giudici d'appello bis e sorprese durante il dibattimento, si arriva al colpo di scena di ieri quando è lo stesso pg della Cassazione a chiedere di annullare la sentenza di fronte a un caso con troppo ipotesi: dall'arma (forse un martello) al movente mai accertato. Oggi l'ultimo atto: i giudici della quinta sezione della Suprema Corte leggono il verdetto di conferma della condanna a 16 anni. Ecco gli elementi che hanno pesato sulla decisione.

SCARPE E TAPPETINI AUTO - In primo grado, secondo i periti, le scarpe indossate dall'imputato e consegnate il giorno dopo ai carabinieri si sono potute ripulire dopo aver calpestato il pavimento sporco di sangue di casa Poggi. Secondo altri periti, invece, è da escludere che il sangue secco, una volta pestato, si sia disperso. Inoltre, l'esperimento effettuato sui tappettini della Golf nera - l'auto usata per raggiungere i carabinieri dopo aver scoperto il corpo di Chiara - certifica che qualche traccia di sangue doveva restare sotto le suole di Alberto. Insomma le Lacoste 'immacolate' incastrano l'imputato.

LE BUGIE - Il racconto di Alberto non convince: la telefonata al 118 viene fatta non davanti alla villetta ma a pochi passi dalla stazione dei carabinieri come svela una voce in sottofondo. Stasi mente sul numero delle biciclette in possesso della sua famiglia e non spiega di aver lavorato alla tesi la mattina del delitto, secondo l'accusa. Non convince il racconto del volto "pallido" della fidanzata ricoperto invece di sangue quando i soccorritori trovano il corpo di Chiara. In un processo indiziario tutto questo non basta, per la difesa.

LE BICICLETTE - Il ritrovamento del Dna di Chiara sul pedale della bici bordeaux di Alberto porta al suo fermo, ma è su una bici nera vista da una vicina davanti a casa Poggi la mattina del delitto che si concentrano le indagini. L'allora 24enne invertì i pedali tra le due bici quando la stampa iniziò a scrivere che si cercava una bici nera è la tesi della parte civile; c'è una terza bici mai trovata per la pubblica accusa. Anche in questo caso, per la difesa, si tratta di ricostruzioni fantasiose.

IL PORTASAPONE E IL DNA - Una foto mostra che sul pigiama di Chiara ci sono quattro impronte di una mano dell'assassino: quando viene spostato il corpo la maglietta viene intrisa di sangue e addio ditate. Quella immagine però svela che chi ha ucciso si è sporcato e prima di scappare si è lavato. Lo dimostrano le impronte insanguinate delle scarpe dell'assassino numero 42 - lasciate davanti al lavabo in bagno -, mentre sul dispenser portasapone resta il sangue della vittima misto al Dna di Alberto.

L'ALIBI - Alberto sostiene di lavorare alla tesi di laurea mentre Chiara muore. Quello che si riesce a ricostruire è che accede al suo file alle 9.36, Chiara disattiva l'allarme di casa alle 9.12; in 23 minuti secondo accusa lo studente poteva uccidere la fidanzata. Finestra temporale troppo ridotta invece per la difesa: nessuna prova che Alberto sia uscito di casa a quell'ora, né che Chiara sia morta in quell'arco di tempo.

IL MOVENTE RESTA UN MISTERO - E' nella relazione di coppia che si scava per trovare un movente. Chiara era diventata una presenza "ingombrante e inutile", forse un ostacolo per le sue perversioni: la vittima avrebbe scoperto - è solo una teoria dell'accusa - le numerose foto pornografiche presenti nel computer del fidanzato. Una "mera ipotesi", di fronte a un movente mai accertato ribatte la difesa, parole condivise ieri dall'accusa.

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