L'ipotesi, secondo le analisi dello Spallanzani, non è concreta
Una nuova variante covid dalla Cina? Improbabile, ad oggi. Nel paese asiatico, alle prese con un'impennata dei contagi, "il salto evolutivo da monitorare con attenzione sarebbe quello oltre i confini di Omicron, con la nascita di un'altra vera nuova variante di interesse, ma al momento questa rimane un'ipotesi non supportata da dati epidemiologici reali", chiarisce l'Inmi Spallanzani di Roma, in un documento sullo scenario attuale Covid-19 e sulle azioni di intervento vista la situazione in Cina, pubblicato su Facebook.
"Al momento - osservano gli esperti dell'istituto - le poche informazioni che arrivano dalla Cina indicano che le varianti che stanno alimentando questa nuova imponente ondata di contagi sono le stesse che già circolano da tempo a livello globale, ancora quindi all'interno delle sottovarianti di Omicron. La stessa sottovariante BF.7, su cui si stanno concentrando timori infondati, è una evoluzione della BA.5, già circola da tempo anche alle nostre latitudini ed è meno immunoevasiva delle varianti BQ che sono al momento dominanti in Europa e Nord America".
Dalla Cina arriva "una lezione per l'intero pianeta su come non vada mai gestita un'epidemia", rimarca lo Spallanzani. Secondo gli specialisti di malattie infettive, in Cina si sta verificando "una tempesta perfetta, con una copertura vaccinale insufficiente e la maggior parte delle persone ancora suscettibili. La riduzione repentina delle misure di restrizione, legata alla protesta popolare, ha funzionato da innesco perfetto, generando inevitabilmente un impressionante numero di nuovi casi. Le stime non ufficiali degli osservatori occidentali arrivano a oltre 300 milioni di casi, circa un abitante su cinque, con una previsione a breve di oltre un milione e mezzo di morti. Un percorso tutt'altro che virtuoso, gestito attraverso una politica sanitaria completamente sbagliata: prima condannati ad una dura e inaccettabile restrizione e poi all'esplosione della pandemia a seguito dell'allentamento delle misure restrittive".
"Il caso della Cina sul Covid è unico, quasi paradossale - sottolinea l'istituto - Un percorso inverso rispetto a Europa e Nord America. E' stato il primo Paese a osservare casi e nella primavera del 2020 ha avuto il più alto numero di contagi. Le immagini degli ospedali di Wuhan e delle altre megalopoli cinesi sono state un'icona della malattia. Ha applicato norme di restrizione e mitigazione impressionanti, ma anche inaccettabili per una democrazia. Il lockdown è stato una misura permanente, con fasi di apertura seguite da misure restrittive durissime anche a seguito di poche decine di casi segnalati. Alla fine di novembre in Cina erano segnalati solo 4 milioni di casi, a fronte di una popolazione di 1 miliardo e mezzo di persone. Anche altri Paesi dell'area del Pacifico avevano scelto una politica di stretto controllo della diffusione del contagio, ma parallelamente avevano attuato campagne vaccinali altamente efficienti".
In Cina invece "l'argine della vaccinazione contro il Covid non ha funzionato per diversi motivi: poche le vaccinazioni eseguite rispetto al numero totale di cittadini; scarso il livello di protezione conferito dai vaccini utilizzati, che sono stati diversi da quelli usati nei paesi occidentali; ridotto il numero di persone anziane e fragili vaccinate, per di più con poche dosi di richiamo. Nella città di Shanghai, il 62% degli over 60 non è coperto con terza dose e il 38% non è mai stato vaccinato. La strategia di contenimento in Cina è stata quindi basata quasi esclusivamente sulle misure di restrizione, feroci e vessatorie, venendo a mancare una contestuale azione di efficace prevenzione sanitaria come invece è stato fatto nel nostro Paese. Il virus, la variante Omicron in particolare, è fino a poco tempo fa circolata poco in Cina, con una conseguente bassissima immunità ibrida".