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Caso Pamela, Oseghale: "Morta in casa mia ma non l'ho uccisa"

Foto Adnkronos
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16 ottobre 2020 | 15.31
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Dall’inviata Silvia Mancinelli

"Mi dispiace per quanto accaduto a Pamela ma non l’ho uccisa. Ho fatto cose bruttissime, è vero, ma i fatti così come ricostruiti dal giudice non sono reali". Inizia così la lettera che Innocent Oseghale, imputato nel processo per l’omicidio di Pamela Mastropietro, ha letto in aula nel corso dell’udienza al tribunale di Ancona.

"Ci siamo incontrati a Giardini Diaz perché voleva comprare della droga, ma non l’avevo e ho chiesto a un amico. Mi sono quindi seduto ad aspettare - continua sfogliando il foglio protocollo scritto in stampatello - Pamela mi ha approcciato, mi ha chiesto se mi piacesse e abbiamo fatto sesso nel sottopassaggio di via Scodella. Ha poi iniziato ad agitarsi, a parlare in modo affannoso. Voleva la droga".

Continua ancora Oseghale, assistito dall’interprete. "Abbiamo camminato, mi ha detto che voleva andare a casa mia per fare una doccia e riprendere il treno per Roma alle 14 - prosegue il nigeriano - Siamo così andati al supermercato a prendere qualcosa da mangiare, poi è entrata da sola in farmacia. Una volta a casa le ho mostrato la foto della mia famiglia, era felice, mi ha abbracciato e baciato, abbiamo mangiato, mi ha chiesto un cucchiaio, gli chiesi se volesse bere qualcosa ma ha rifiutato e ha iniziato a preparare la dose di eroina".

Il racconto è dettagliato, mentre in aula tutti sono in piedi a osservarlo. "Mi sono messo a lavare i piatti e mi ha chiesto di mettere della musica per rilassarsi. L’ho accompagnata nella stanza degli ospiti e le ho portato il computer - aggiunge - ma è stato in quel momento che ho sentito un rumore, era caduta a terra ma aveva gli occhi aperti, non parlava".

"L’ho sistemata sul letto e ho chiamato un amico, Antony, spiegandole cos’era successo: mi ha consigliato di darle un bicchiere d’acqua e così ho fatto. Il suo respiro era affannoso - va avanti Oseghale in un inglese stentato - Sono quindi uscito per raggiungere un amico che mi stava aspettando per la droga, sperando di ritrovarla in migliori condizioni al rientro. Purtroppo non è andata così. Quando sono tornato a casa lei era già fredda, aveva un colorito molto bianco e le usciva della sostanza dalla bocca".

Ed è allora che le è venuto in mente il piano "folle". "Vedendola così ero scioccato e confuso - dice - Ho richiamato il mio amico, mi ha detto di andare dove stava, gli ho spiegato la situazione e mi ha dato la colpa, dicendo che avrei dovuto chiamare la polizia o un’ambulanza. Gli ho risposto che Pamela era morta e che era un grande problema. Ero veramente molto confuso e dispiaciuto. Mi ha chiamato più volte la mia fidanzata ma non potevo risponderle".

"Sono diventato agitato, pazzo", continua senza mai staccare gli occhi dal foglio. "Sono andato a comprare una valigia - prosegue mentre alle sue spalle, poco distante, la mamma della ragazza piange, sostenuta da un’amica - ma era troppo piccola per mettere il corpo di Pamela. Così l’ho tagliato a pezzi per poterlo portare fuori. Ho chiamato un taxi perché mi desse un passaggio. Ho lasciato le valigie a bordo strada".

"Questa è la verità - conclude rivolgendosi alla Corte - So di aver fatto cose molto brutte, ma non ho ucciso Pamela. Abbiamo solo fatto sesso, come lei voleva. Ora vi chiedo di giudicarmi senza pregiudizi, fatemi pagare per i crimini che ho commesso non per i crimini che non ho commesso. E non giudicatemi per il colore della pelle".

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