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Borsellino, Caselli: "Fu ucciso per il timore che si opponesse alla Trattativa Stato-mafia"

L'ex magistrato ricorda la strage di via D'Amelio, le ragioni del suo accadimento, le sentenze

Gian Carlo Caselli (Fotogramma)
Gian Carlo Caselli (Fotogramma)
18 luglio 2020 | 13.36
LETTURA: 2 minuti

di Rossella Guadagnini

Totò Riina avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino perché temeva si opponesse alla Trattativa. Mentre "l'invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Vito Ciancimino (...) può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione (...) con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi (...) maggiori vantaggi".

"Questo afferma la sentenza di Palermo sul processo Trattativa Stato-mafia, emessa dai giudici della Corte d'Assise l'anno scorso. Attualmente il processo è in fase di appello". A ricordarlo all'Adnkronos a 28 anni dai fatti di Via D'Amelio è Gian Carlo Caselli, giudice istruttore a Torino, che poi ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo subito dopo l'uccione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nonché delle persone delle loro scorte. Oggi dirige l'Osservatorio di Coldiretti sulla criminalità nell'agricoltura e sulle 'agromafie'.

Di recente l'ex magistrato ha pubblicato anche un saggio, insieme al collega Guido Lo Forte già pm a Palermo e a Messina come procuratore capo della Repubblica. Si intitola "Lo Stato Illegale" (Editori Laterza) e traccia la storia degli stretti legami tra mafia, politica e imprenditoria nel periodo che va da Portella della Ginestra a oggi: all'eccidio di via D'Amelio del '92 sono dedicate ampie parti del volume.

"Nel capitolo dedicato alle stragi e ai relativi processi, fino a quello sulla Trattativa -sostiene Caselli- viene precisato che la storia di Borsellino ha avuto uno sviluppo tanto clamoroso quanto scellerato. A Caltanissetta sono stati celebrati vari processi sulla strage di via D'Amelio. Ma il cosiddetto 'Borsellino quater' ha segnato un ribaltone, perché la motivazione della sentenza di primo grado (1865 pagine, depositate il 30 giugno 2018) è totalmente sconvolgente: le dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all'ergastolo, sono false in quanto frutto 'di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana', realizzato da 'soggetti inseriti negli apparati dello Stato'".

Qui la sentenza fa riferimento specifico "al gruppo di investigatori dell'epoca guidato da Arnaldo La Barbera, appositamente istituito per le indagini sulle stragi presso la Procura di Caltanissetta: sarebbero stati loro a indirizzare l'inchiesta costruendo falsi pentiti, per scopi che sicuramente vanno ben oltre l'ansia di ottenere risultati nella ricerca dei responsabili del delitto del 19 luglio 1992".

"I giudici -conclude Caselli- e lo abbiamo scritto chiaramente con Lo Forte anche nel libro, sottolineano l'iniziativa 'decisamente irrituale' dell'allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada e quella improvvida di non voler sentire ciò che Paolo Borsellino poteva rappresentare in ordine alla strage di Capaci".

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