"La campagna elettorale per le europee doveva servire per l'appunto anche a cercare di liberarci da certi eccessi del nostro provincialismo geopolitico"
"Sarà la geopolitica, lo si voglia o no, a ridisegnare prima o poi la geometria dei partiti e delle coalizioni. L’ordine sparso di questa campagna elettorale ha dato a tutti l’illusione che si potesse non pagare un pegno troppo oneroso alle drammatiche complicazioni dell’ordine internazionale. Ma si tratta, appunto, di un’illusione. Che la cronaca degli ultimi mesi avrebbe dovuto già drammaticamente dissolvere. La campagna elettorale per le europee doveva servire per l’appunto anche a cercare di liberarci da certi eccessi del nostro provincialismo geopolitico. E cioè a farci tornare verso quella vecchia regola secondo cui si ragiona di alleanze e coalizioni casalinghe solo una volta che si sia ben chiarito un comune orizzonte internazionale. Invece noi continuiamo a coltivare partiti e schieramenti che vanno in ordine sparso non appena mettono il naso fuori di casa. E così capita che Salvini e Conte parlino della crisi ucraina con parole e stati d’animo non troppo diversi; e che sullo stesso argomento il Pd ospiti posizioni che fanno letteralmente a pugni una con l’altra.
In questo modo si sovverte uno dei principi cardine della vita repubblicana. Vale a dire il nesso inesorabile tra la collocazione internazionale delle forze politiche e il loro schieramento sul fronte interno. Un nesso che è sempre stato rispettato con il rigore che tutti allora consideravano indispensabile. A suo tempo, si ricorderà, De Gasperi venne a capo senza nessuna indulgenza della riottosità dei dossettiani verso l’alleanza atlantica. Nenni mise piede nella stanza dei bottoni solo dopo aver sdegnosamente restituito all’Urss il premio Stalin di cui era stato insignito. Berlinguer entrò a far parte della maggioranza solo all’indomani dell’intervista in cui confidò di sentirsi più “sicuro” al riparo della Nato. E il pentapartito, ultimo vagito della prima repubblica, si formò intorno alla scelta di dislocare i missili americani in quel di Comiso in Sicilia.
Era una regola, mai un caso. E quella regola aveva a che vedere con la nostra ambizione di contare qualcosa. Infatti, un paese, e una politica, che rinuncia alla perfetta corrispondenza tra gli affari interni e quelli esteri si avvia, inevitabilmente, a una pericolosa marginalità sulla scena internazionale. Con una aggravante, nel caso dei nostri giorni. E cioè che mentre prima, in epoca di guerra fredda, il campo delle alleanze era assai definito -fin troppo, si dirà- oggi tutto il quadro è in movimento e un paese che voglia contare qualcosa non dovrebbe solo limitarsi a tener fede alle sue alleanze, ma piuttosto dovrebbe cimentarsi con tutte le novità, le varianti e gli sconvolgimenti che la nuova epoca ci prospetta.
Infatti non basta più solo ribadire i vincoli della nostra collocazione internazionale. Occorre anche (e soprattutto) cercare di capire come quei vincoli stiano cambiando in corso d’opera. Dirsi atlantici ed europeisti non basta, se non si chiariscono i termini delle due definizioni. E dirsi “occidentali” a sua volta implica lo sforzo di ripensare anche quella categoria. Che un tempo andava di gran moda. E che ora invece sembra rigettata con sdegno non solo dai suoi competitori internazionali ma anche, e direi soprattutto, dai suoi stessi figli.
Di fronte alle notizie che ci piovono addosso tendiamo a scansarci, rifugiandoci nel dubbio privilegio della nostra marginalità. E di fronte alle proteste degli studenti siamo tentati o di accodarci pur senza troppa convinzione o di voltarci dall’altra parte senza troppo argomentare. E’ come se ci mancasse la voglia di confrontarci con le questioni che i tre fronti aperti (Ucraina, Israele, Taiwan) ci stanno cominciando a rovesciare dentro casa. Quasi che inconsciamente sperassimo di non essere chiamati troppo in causa dalle loro conseguenze.
Sarebbero stati buoni argomenti da sviluppare in questa campagna elettorale -affacciata non a caso oltre il cortile di casa. Peccato non averlo fatto". (di Marco Follini)