Ucraina e Medio Oriente, ora anche la Siria. Lo scenario internazionale, sempre più complesso, ha vissuto nell’ultimo mese una serie di sviluppi che si legano anche al prossimo insediamento, il 20 gennaio, di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. La sua promessa di porre fine al conflitto scatenato dalla Russia sta avendo l’effetto di intensificare i combattimenti, con entrambe le parti impegnate a guadagnare terreno prima che possano iniziare eventuali colloqui di pace. L’obiettivo è piuttosto chiaro, su tutti e due i fronti: da parte russa, occupare più terreno ucraino possibile, da parte ucraina limitare i danni con le risorse rimaste. Cambiando fronte, il cessate il fuoco in Libano, pure tra denunce incrociate di violazioni tra Israele e i miliziani di Hezbollah, è un passaggio che ha riportato l’attenzione su Gaza e sul conflitto ‘originario’, quello con Hamas. Proprio sulle operazioni militari a Gaza si è concentrata la Corte penale internazionale, il principale tribunale internazionale per i crimini di guerra e contro l’umanità, che ha emesso un mandato d’arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e contro l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. I due sono accusati di crimini commessi nella Striscia di Gaza tra l’8 ottobre 2023 (il giorno successivo all’attacco di Hamas contro Israele) fino ad almeno il 20 maggio 2024.Il mandato richiesto dal procuratore Khan riguardava anche tre leader di Hamas: Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif, che però sono stati tutti uccisi da Israele negli scorsi mesi. Dato che l’uccisione di Deif (che comandava le brigate al Qassam, il braccio armato di Hamas) non è mai stata confermata da Hamas, la Corte ha deciso di non poterne confermare effettivamente la morte, e ha emesso comunque un mandato contro di lui. Le polemiche seguite alla decisione della CPI rispetto alla presunta omologazione delle responsabilità tra Israele e Hamas non spostano molto rispetto al problema, centrale, di trovare una soluzione a un conflitto che sta continuando a produrre un numero elevatissimo di morti fra i civili. Il quadro complessivo della crisi mediorientale si è poi esteso a un nuovo fronte, quello siriano. I gruppi armati della regione di Idlib, nel nord della Siria, hanno avviato un’offensiva per costringere i soldati del regime del presidente Bashar al Assad ad arretrare. Hanno preso in poche ore il controllo di Aleppo, la seconda città del Paese, che avevano perduto nel 2016 dopo una battaglia urbana che era durata quattro anni. Hanno oltrepassato Aleppo e hanno occupato le basi militari e le piccole città intorno, come la zona industriale di Sheik Najjar e la grande centrale termoelettrica a nord, Safira e Khanaser a sudest. Di fatto, è come se si fosse improvvisamente riavvolto il nastro della lunga guerra civile in Siria. Si torma indietro ai primi due anni, quando il regime di Assad era in grande difficoltà mentre affrontava la rivolta armata da solo. Il tema delle alleanze di Assad è infatti in primo piano. Il regime oggi è debole perché per anni ha fatto affidamento sulla Russia, l’Iran e Hezbollah. Oggi sono tutti e tre impegnati a fare altro, con i legami tra i diversi focolai di tensione sullo scenario internazionale sempre più evidenti.