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Governo, Mattarella pronto con la 'cassetta degli attrezzi' per la quinta crisi

Quattro le crisi di governo gestite dal Presidente della Repubblica, durante il suo precedente settennato

(Fotogramma)
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15 luglio 2022 | 21.25
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Sono quattro le crisi di governo gestite dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante il suo precedente settennato: la prima accompagnando senza traumi la diciassettesima legislatura alla sua naturale conclusione; le altre tre, tra le quali quella più lunga delle storia repubblicana (70 giorni), gestendo, dopo le elezioni del marzo 2018, un quadro politico privo di uno schieramento in grado di esprimere una maggioranza parlamentare, con una situazione resa poi più complicata dal manifestarsi della pandemia e poi dallo scoppio del conflitto in Ucraina, con tutte le conseguenze negative sul piano socio economico.

Ora, dopo la rielezione al Quirinale, un nuovo passaggio delicato da affrontare dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Mario Draghi, respinte insieme all'invito rivolto al premier a "presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata" dopo la decisione del Movimento 5 stelle di non partecipare alla votazione sulla fiducia posta al Senato sul decreto legge Aiuti. Una scelta, quella del Capo dello Stato, che non manifesta una divergenza con il presidente del Consiglio, come si è affrettato a chiarire l'ufficio stampa del Colle, parlando di "totale identità di vedute" tra il Capo dello Stato e l'inquilino di Palazzo Chigi.

Del resto a supporto della scelta di Mattarella si possono citare numerosi precedenti, confermando quindi una linea di continuità istituzionale con i predecessori e la volontà di servirsi sempre di quella "cassetta degli attrezzi" contenuta "nella Costituzione".

Tutto ciò tenendo fede alla lezione del Presidente eletto dal primo Parlamento repubblicano, Luigi Einaudi, che “si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio ogni volta che lo ritenne necessario”, con l’intento di “lasciare al suo successore ‘immuni da ogni incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce’: non intendeva cioè trasmettere una sfera di compiti e poteri inferiore a quella affidatagli dalla Costituzione”.

Di qui la volontà dell'attuale Capo dello Stato “di non pretendere di ampliare quella sfera al di fuori di quanto previsto dalla Costituzione e dalla legge”, rivendicando in ogni caso che “il Presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia, che non ha mai subito, né può subire, imposizioni”.

Partendo da questi presupposti, quando Matteo Renzi gli presenta le dimissioni il 5 dicembre del 2016 all’indomani della sconfitta nel referendum sulla riforma costituzionale, ad un anno dalla conclusione della legislatura, il Presidente della Repubblica, benché “in alcuni momenti particolari la parola agli elettori costituisca la strada maestra”, ricorda che chiamarli al voto anticipato “è una scelta molto seria”. Questo non può avvenire senza “regole elettorali chiare e adeguate perché gli elettori possano esprimere, con efficacia, la loro volontà e questa trovi realmente applicazione nel Parlamento che si elegge”.

In quel frangente queste norme mancano, di qui la necessità di risolvere, “rapidamente, la crisi di governo”, con la conferma della maggioranza di centrosinistra uscente e la promozione a palazzo Chigi del ministro degli Esteri in carica, Paolo Gentiloni, anche per consentire al Parlamento di approvare nuove regole elettorali.

Ma è nell'attuale legislatura che Mattarella deve ricorrere a tutto il bagaglio politico e istituzionale a sua disposizione per gestire un quadro politico ingovernabile all'indomani delle elezioni del 4 marzo 2018. Senza forzature e imposizioni, il Presidente della Repubblica inizia una paziente opera di tessitura, per “ricercare una soluzione che, attraverso un’assunzione di responsabilità”, non renda “vano il voto espresso dai cittadini”, con “lunghe consultazioni” per “individuare, in modo trasparente e lineare, una maggioranza parlamentare” in grado di sostenere un Governo.

Nasce così l'Esecutivo sostenuto da Movimento 5 stelle e Lega e presieduto da Giuseppe Conte, non senza momenti di tensione, come quando Mattarella dice no alla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, in quanto “sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell'Italia dall'euro”. Una scelta che richiama la lezione di Francesco Cossiga, secondo cui “i poteri che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato nella nomina dei ministri”, rendono “il vaglio presidenziale non comprimibile”.

Un anno dopo, in pieno agosto 2019, il segretario della Lega, Matteo Salvini, decide di dire stop alla maggioranza gialloverde, puntando dritto alle elezioni. L’Italia, che in passato aveva conosciuto i governi balneari, sperimenta così la crisi balneare. È il 22 agosto quando Mattarella, dopo un primo giro di consultazioni, verifica l’intenzione “di alcuni partiti politici” di approfondire la possibilità di “un’intesa, in Parlamento, per un nuovo Governo” e da parte di “altre forze politiche” di svolgere “ulteriori verifiche”.

Di fronte a questa prospettiva ritiene suo “dovere –ineludibile- non precludere l’espressione di volontà maggioritaria del Parlamento, così come è avvenuto –del resto- anche un anno addietro, per la nascita del Governo che si è appena dimesso”. Il Capo dello Stato pretende però “decisioni sollecite”. Dopo un secondo giro di consultazioni, il Presidente della Repubblica certifica che, sempre intorno alla premiership di Conte, si è creata una nuova alleanza, formata da M5S, Pd e Leu, una coalizione giallorossa. “Una volta che, in base alle indicazioni di una maggioranza parlamentare, si è formato un Governo, la parola compete al Parlamento e al Governo”, che “nei prossimi giorni si presenterà davanti alle Camere per chiedere la fiducia e presentare il suo programma”, afferma l’arbitro Mattarella, fischiando la fine della terza crisi che si è trovato a dirigere. È il 4 settembre del 2019.

Trascorre l'intero 2020, contrassegnato dalla pandemia, e all'inizio del 2021 Matteo Renzi, che nel frattempo ha fondato un nuovo partito, Italia viva, decide che per il secondo Governo Conte è arrivato il momento del game over. Il premier, dopo le dimissioni delle ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti a metà gennaio 2021, decide di promuovere un chiarimento in Parlamento, dove il 19 ottiene, soprattutto in Senato, una fiducia con numeri tali da convincerlo, una settimana dopo, a gettare la spugna.

Mattarella ancora una volta conferma la linea seguita nelle precedenti crisi: salvaguardare la legislatura tenendo conto del contesto politico, sociale ed economico, senza però esercitare alcuna imposizione, ma lasciando che maturino le condizioni per dar vita ad un Governo in grado di ottenere un sostegno parlamentare. Così il Capo dello Stato lascia che il presidente della Camera, Roberto Fico, ‘esplori’ la possibilità di ricostituire la coalizione entrata in crisi, ma il 2 febbraio deve registrare il fallimento del tentativo.

Quali soluzioni adottare? “Le elezioni –rimarca Mattarella- rappresentano un esercizio di democrazia”, ma è “un momento cruciale per le sorti dell’Italia”. Occorre perciò “un Governo nella pienezza delle sue funzioni”, per sviluppare la campagna vaccinale; assumere “decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi”; provvedere a tutti gli adempimenti legati al Pnrr. Senza dimenticare i rischi che comizi e manifestazioni legati alla campagna elettorale potrebbero comportare per la diffusione del virus.

Di qui l’appello rivolto “a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. A guidarlo, il giorno successivo, sarà chiamato Mario Draghi.

Di fronte ad una crisi sociale ed economica che si fa sempre più preoccupane, anche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, Draghi riesce a portare avanti le mission che gli sono state affidate, non senza affrontare e superare fibrillazioni che attraversano una maggioranza che comprende praticamente tutti i partiti tranne Fratelli d'Italia, Sinistra italiana e componenti formate soprattuto da ex parlamentari Cinquestelle.

Fino allo show down di ieri, quando al Senato il Movimento Cinquestelle non partecipa al voto di fiducia sul decreto legge Aiuti. Per Draghi una scelta che certifica che "la maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo Governo dalla sua creazione non c'è più". Di qui la decisione di dimettersi.

Mattarella però ritiene necessario un ulteriore passaggio parlamentare e respinge le dimissioni di Draghi: un modo, in questo caso, di riaffermare quelle prerogative presidenziali di cui Luigi Einaudi, "si servì in pieno ogni volta che lo ritenne necessario". E che dopo il dibattito parlamentare il Capo dello Stato sarà chiamato nuovamente a manifestare ed esercitare. (di Sergio Amici)

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