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Burioni: "Tampone al momento è test migliore che abbiamo"

Il virologo passa in rassegna esami in uso e 'boccia' i sierologici per capire chi è infettivo

Roberto Burioni (Fotogramma)
Roberto Burioni (Fotogramma)
30 settembre 2020 | 12.46
LETTURA: 3 minuti

"Per valutare l’infettività degli individui il test principalmente usato è il tampone. In realtà si tratta di un esame molecolare che viene eseguito su un tampone fatto nel naso e nella gola del paziente. Dimostrando il test la presenza non del virus, ma del suo genoma, e ottenendosi un risultato positivo anche con poche molecole presenti, è molto probabile che alcuni dei positivi (non sappiamo quanti) non siano in realtà più infettivi. Però al momento è il meglio che abbiamo". Lo sottolinea il virologo del San Raffaele di Milano Roberto Burioni in un lungo articolo pubblicato su 'MedicalFacts', il sito di informazione e divulgazione scientifico da lui fondato, in cui fa chiarezza su tutti i test oggi in uso: sierologici, rapidi e appunto il tampone.

"I test sono molto importanti perché, oramai lo sappiamo, il coronavirus può essere diffuso anche da persone che non hanno i sintomi, o che non hanno ancora i sintomi. Dunque - evidenzia il virologo - l’utilità principale del test in questo momento è quello di identificare le persone che possono trasmettere l’infezione per isolarle e isolare i loro contatti. Per questo scopo i test sierologici sono inutili - precisa - Dimostrano la presenza di anticorpi nel sangue, che sono il segno di un’infezione avvenuta nel passato. Se il test sierologico è positivo il paziente può essere non infettivo perché gli anticorpi possono essere dovuti a una infezione lontana nel tempo e già risolta; se il test è negativo il paziente può essere nel momento iniziale della malattia (quello in cui la contagiosità è massima) quando gli anticorpi non sono stati ancora prodotti, ed essere in grado di infettare gli altri. In altre parole, il test sierologico per capire chi è infettivo e isolarlo non serve a molto".

Ci sono poi i test rapidi, usati già negli aeroporti, "che non dimostrano la presenza del genoma del virus, ma delle sue proteine. Questi test vengono detti antigenici perché sfruttano anticorpi specifici per le proteine del virus per la dimostrazione. Concettualmente funzionano in maniera identica ai test di gravidanza - sottolinea Burioni - Mentre i test di gravidanza dimostrano la presenza di una proteina che si trova nelle urine quando una donna aspetta un bambino (la gonadotropina corionica umana), i test per il virus dimostrano nel tampone la presenza di proteine del virus. In questo caso manca completamente il passaggio di 'amplificazione genica', per cui questi test sono in generale molto meno sensibili".

"Se la Pcr riesce a dimostrare la presenza di due molecole di Rna virale, questi test rapidi - prosegue il virologo - dimostrano la presenza di ventimila proteine virali, per darvi un’idea. Questo però potrebbe non essere un problema, perché se comunque in questo modo si riuscissero a identificare le persone più infettive, potendole immediatamente isolare, avremmo dato un colpo mortale alla diffusione del virus. Quello che dobbiamo sapere – e che ancora non sappiamo – è che percentuale di persone infettive riescono a identificare questi test rapidi. Se la percentuale fosse alta, saremmo a cavallo e avremmo una nuova arma potentissima per combattere la diffusione di questo virus maledetto".

"Ancora non abbiamo dati definitivi su questi nuovi test e dobbiamo avere un poco di pazienza - conclude Burioni - Pensate che l’Aids è stato identificato come malattia nel 1981 e un test per diagnosticare in laboratorio l’infezione è arrivato più di tre anni dopo. Anche per l’epatite C c’è voluto molto tempo. Però quando nel 1990 un test efficace è risultato disponibile, la diffusione dell’infezione è crollata. Potrebbe succedere lo stesso per questo nuovo coronavirus".

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