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Come si sfida la concorrenza dei grandi? Territorio e proximity, la strategia di Diadora

In un'intervista di Rewriters parla Enrico Moretti Polegato, ad dell’azienda di Montebelluna

Enrico Moretti Polegato
Enrico Moretti Polegato
17 ottobre 2024 | 19.13
LETTURA: 2 minuti

Enrico Moretti Polegato, figlio d’arte (il padre Mario ha fondato e dirige la Geox), è alla guida di Diadora. E’ un ottimista. E la sua azienda si fa strada su un terreno difficile, con concorrenti dai nomi che fanno paura, come Adidas e Nike. Ma con progressività costante si avvicina al suo obiettivo: rappresentare l’eccellenza italiana nello sport. E per farlo punta sul lavoro di squadra: azienda, dipendenti e territorio. Assieme, per il bene comune. Ne parla in un'intervista di Fabio Bogo per Rewriters , testata edita da ReWorld, startup innovativa femminile a vocazione sociale.

Polegato, chi cerca occupazione chiede qualcosa di più che la sola retribuzione, e allora chi la offre mette sul tavolo anche i suoi valori. Il mondo del lavoro sta cambiando?

“Si sta cambiando, ma non è una novità. I cambiamenti possono accelerare o rallentare, ma non si è mai visto che il mondo torni indietro. L’importante, per chi è in azienda, è che lo si intuisca prima che il tutto accada. E spesso i cambiamenti sono accelerati quando c’è un ricambio generazionale alla guida, un passaggio di testimone. Noi in Diadora abbiamo cambiato marcia e non ci siamo limitati ad adattarci ma abbiamo svoltato e puntato su prodotti che parlino di più ai millenials. Cambiando la filosofia alla base dell’azienda”

E come?

“Con il concetto di proximity. Perché fuori devono vedere come sei dentro. Come lavori al tuo interno è esattamente come rappresenti l’azienda all’esterno. Diadora vuole simboleggiare l’eccellenza italiana nello sport e allora deve essere un’azienda che si relaziona con tutt* gli altr* attor*, che siano i collaboratori e le collaboratrici interni e interne o quell* estern* o i clienti che sono gli utilizzator* finali. Proximity significa che dobbiamo rapportarci con tutte queste persone e, per quanto possiamo , avvicinarsi all’idea di prenderci cura gli uni degli altri. Il marchio, insomma, deve essere la carta di identità di valori ben chiari nei quali il consumatore, o la consumatrice, si possa identificare. E per questo curiamo lo sportivo e la sportiva professionista: perché lui, o lei, non è solo il/la testimonial di un logo, ma quello con cui lavoriamo per migliorare la performance del prodotto. Questa è la proximity che riguarda l’esterno. Che è quella, speculare, che c’è all’interno”.

L'intervista completa è pubblicata su Rewriters.

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