Un libro per raccontare incontri nelle aule 'dietro le sbarre'
Ripartire da dove il filo si è spezzato: perché fornire una istruzione (non sempre ma spesso) aiuta a costruirsi un'altra vita. E' il senso della esperienza raccontata in "Lontano dalla vita degli altri" (marinonibooks, 72 pagine, 35 euro) di Giovanna Canzi, giornalista, editor, curatrice di mostre che a un certo punto della sua vita si ritrova a insegnare in un carcere lombardo, docente della Settima sezione, quella dei detenuti protetti, sex offender, ma non solo. E' un mondo a parte in un universo che è già per definizione "lontano dalla vita degli altri" (anche se gli 'altri' lo vorrebbero ancor più lontano e invisibile). D'altronde il carcere sorge vicino a una discarica: e forse non è un caso.
E' - inutile dirlo - una esperienza che non si può vivere con indifferenza, e Giovanna Canzi la affronta con una partecipazione che fa breccia fra i suoi allievi particolari. La formula scelta non è quella del racconto classico, ma di istantanee scattate - con occhio partecipe e mano leggera - agli studenti che partecipano alle lezioni, talora diffidenti, più spesso curiosi e 'affamati'. Sono ritratti (accompagnati dalle suggestive illustrazioni di Gabriella Giandelli, scarne, evocative, quasi monocromatiche, come in un 'mondo triste') nei quali è bandito ogni pietismo, figurarsi un qualsiasi giudizio morale: l'eco di quello che è successo 'prima' non risuona nelle aule, né nelle pagine del libro. Nell'universo parallelo e senza tempo del carcere si può insegnare utilmente solo se ci si astiene dai giudizi: le sentenze sono già state emesse, e non solo da un giudice. In diversi di questi ritratti è persino omesso il reato all'origine della condanna: è un'informazione superflua per questo tipo di letteratura. Proprio come gli orologi, che - come Giovanna scopre subito - spesso sono rotti o fissati su orari sballati, perché in un certo senso in carcere il tempo non esiste.
Da 'operatrice' sensibile e consapevole Giovanna Canzi si è immersa in questo compito con dedizione totale, ha curato progetti di reinserimento, ha ascoltato, guidato, promosso iniziative. Come una giardiniera devota, ha seminato e lasciato germogliare l'amore per parole che aiutassero a vivere e non a odiare. Poi l'esperienza è finita e come lei stessa ammette "lo strappo è stato doloroso". Ma è, come si capisce dal tono partecipe di questi ritratti, uno strappo mai definitivamente compiuto.