Per tutta la vita si è battuta per ottenere la verità sulla morte del marito, accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana e trattenuto negli uffici della questura milanese oltre i termini di legge fino alla tragica morte. Calabresi la ricorda sui social: "Ebbe il coraggio di rompere un muro di odio e rabbia"
È morta oggi, 11 novembre, a Milano Licia Rognini Pinelli, vedova di Giuseppe 'Pino' Pinelli, il ferroviere anarchico accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana e morto precipitando, durante un interrogatorio, dalla finestra della questura di Milano nel dicembre del 1969.
Licia Pinelli aveva 96 anni e per oltre mezzo secolo si è battuta alla ricerca della verità sulla morte di suo marito senza mai ottenerla. "Uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste", il suo commento amaro.
Nata a Senigallia (Ancona) nel 1928, Licia Rognini arrivò a Milano a due anni, figlia di una sarta a domicilio e di un falegname anarchico assunto alla Pirelli come operaio. Mandata a Roma dagli zii nel 1943 quando Milano è bombardata, vi tornerà dopo la Liberazione. Per qualche anno da giovane fu iscritta al Partito comunista italiano, ma aveva un carattere troppo indipendente e lo lasciò presto. Era curiosa, in cerca di nuovi modelli ed esperienze e con questo spirito si iscrisse a un corso di esperanto, al Circolo filologico milanese. Qui conobbe quello che diventerà suo marito nel 1955, Giuseppe Pinelli, un giovane anarchico pieno di entusiasmo e ideali. L'esperanto è la lingua universale che li accomuna in un ideale di pace e uguaglianza tra gli uomini.
Dal loro matrimonio nacquero due figlie, Silvia e Claudia, nel 1960 e nel '61. Licia cominciò a lavorare a casa, che divenne un porto di mare, aperta a tutti, frequentata da studenti che si facevano battere a macchina da lei le tesi di laurea, da compagni anarchici e non, da assistenti universitari, da molti cattolici. Negli anni tra il 1968 e il 1969 l'impegno politico di Pino Pinelli nel movimento anarchico e nel sindacato crebbe sempre di più: era molto attivo, faceva da tramite tra i vecchi anarchici e i giovani della contestazione e non esitava a esporsi in prima persona. Licia non lo seguì in questo suo impegno: lavorava in casa, cresceva le figlie, voleva il suo compagno più presente.
Il 12 dicembre 1969 la bomba nella sede milanese della Banca Nazionale dell'Agricoltura a Milano che provocò 17 morti e 88 feriti, e passata alla storia come la strage di piazza Fontana fu il primo terribile atto della strategia della tensione: l'Italia intera restò attonita, sgomenta, impaurita. Parti immediatamente la caccia agli anarchici e anche Pino Pinelli venne fermato dalla polizia, invitato dal commissario Luigi Calabresi a seguirlo in questura con il suo motorino. "Gli faranno prendere un bello 'spaghetto' e poi lo faranno tornare a casa", disse Licia alle sue figlie che le chiedevano perché il papà non tornasse a casa.
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre Pinelli morì, precipitando, durante un interrogatorio da una finestra della questura di Milano. Il suo stato di fermo, durato tre giorni, si era protratto ben oltre i termini legali. La famiglia viene avvisata da alcuni giornalisti: nella notte arrivarono a casa Pinelli Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giampaolo Pansa. E quando Licia chiamò in questura per sapere perché non era stata avvisata si sentì rispondere: "Non avevamo tempo".
Al dolore immenso per quella morte orrenda, si aggiunsero le dichiarazioni infamanti che vennero immediatamente riversate su Pinelli, accusato dal questore di Milano di essersi suicidato a dimostrazione della sua colpevolezza. I giornali parlarono di "alibi caduto", di slancio felino al grido "è la fine dell'anarchia". Licia, con pochi amici, trovò la forza e il coraggio di ribellarsi alle verità ufficiali e con dignità iniziò la sua battaglia per sapere non solo la verità sulla morte del marito, ma per difenderne la memoria così crudelmente distorta. Da subito, cominciò a conservare tutti gli articoli, tutte le parole e tutte le bugie gettate sulla memoria di Pinelli.
Dovette cambiare scuola alle bambine, che all'epoca avevano 8 e 9 anni; dovette cambiare casa e trovò lavoro come segretaria presso l'Università Statale di Milano. La sua vita venne scandagliata, investigata e lei mostrò in pubblico una maschera di compostezza, forse anche di durezza, che le permise di affrontare il ruolo di vedova Pinelli.
Il 27 dicembre 1969 Licia Rognini denunciò, insieme alla mamma del marito, Rosa Malacarne, il questore di Milano Marcello Guida per diffamazione; il 24 giugno 1971 denunciò il commissario Luigi Calabresi e tutti i presenti in questura per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità. L’istruttoria venne affidata al giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio che nel 1977 l'archivierà escludendo sia il suicidio che l'omicidio motivando la morte come un "malore attivo", prosciogliendo tutti gli indiziati.
Nel 1978 il tribunale di Milano non accolse la richiesta di Licia che chiedeva il risarcimento danni dal Ministero degli Interni per la morte del marito e la condanna a pagare le spese processuali. La vedova Pinelli non ricorse in appello dichiarando la sua sfiducia nello Stato. Nel 1982 Licia sentì il bisogno di raccontare quanto aveva vissuto e dal lungo dialogo intervista con il giornalista Piero Scaramucci nacque il libro "Una storia quasi soltanto mia", ristampato nel 2009 da Feltrinelli.
Negli anni seguenti continuò a lavorare, passando dall'Istituto di Biometria a quello di Psicologia. Nel 2006 fece di nuovo sentire la sua voce, quando il Comune di Milano sostituì la targa dedicata a Pinelli "ucciso innocente nei locali della questura di Milano" con un'altra che recita "innocente morto tragicamente".
A 40 anni da quel 16 dicembre, Licia Rognini venne invitata al Quirinale e il 9 maggio 2009, alla presenza dei familiari delle vittime, poté sentire le parole che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pronunciò in occasione della Giornata della Memoria, e che parlarono di Giuseppe Pinelli come la 18esima vittima della strage di Piazza Fontana. Lì per la prima volta Licia Rognini incontrò Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi. Nel 2015 fu nominata commendatore al merito della Repubblica.
E oggi parole affettuose sono state espresse per lei da Mario Calabresi: "Ricordo l'abbraccio che si scambiò con mia madre, il coraggio di rompere un muro di odio e rabbia e quel modo silenzioso di comprendersi che accomunava due donne che avevano vissuto il dramma di restare vedove con dei figli piccoli".