La vittoria del Sì al refendum sulle trivelle del 17 aprile manderebbe in fumo 7 miliardi di investimenti e 5mila posti di lavoro. A tracciare il quadro all'Adnkronos, è Pietro Cavanna, presidente settore Idrocarburi di Assomineraria. Le piattaforme interessate dal voto sono quelle già esistenti entro le 12 miglia e sono “87, su di un totale di 135”. Tali infrastrutture, spiega Cavanna, “sono distribuite in 48 concessioni di coltivazione entro le 12 miglia e 19 concessioni oltre le 12 miglia” (Totale Concessioni di Coltivazione 69, dati Assomineraria)
Per questo, spiega il presidente del settore idrocarburi di Assominerari, “in caso di vittoria del sì, ben il 70% delle concessioni a mare (48) verrebbero impattate, con una perdita di produzione di 2.5 miliardi di m3 di gas, che rappresentano un terzo della produzione nazionale ed il 3% del fabbisogno nazionale, e di 4 milioni di barili di olio, che rappresentano il 70% della totale produzione a mare”.
Tale mancata produzione “si tradurrebbe in una perdita di investimenti di almeno 7 miliardi di euro ed un mancato introito di royalties e imposte stimate in 450 milioni di euro”. Inoltre, “la perdita delle attività e minori investimenti causerebbe una diminuzione di posti di lavoro nell’ordine di 5000 unità, prevalentemente nell’indotto”.
Secondo Gianfranco Borghini, presidente del comitato Ottimisti e razionali che invita gli italiani a non andare a votare al referendum, “non c'è una regione logica per dismettere queste attività, fermo restando che oltre le 12 miglia se si dovessero trovare nuovi giacimenti nulla può vietare nuove estrazioni. Non si capisce perché il paese non debba sfruttare una risorse naturale di cui dispone e che può essere estratta senza danni”.
Si parla, spiega Borghini, “di un contributo al fabbisogno italiano di idrocarburi del 10,3% dei consumi di olio e l’11, 8% del gas nazionale” per un valore in bolletta di 4,5mld di euro all'anno. Se dovesse venire meno questo contributo “dovremmo aumentare le importazioni per una cifra equivalente”. Anche perché, “non si sostituisce dall’oggi al domani il gas con il sole e il vento. C’è una transizione che quindi verrebbe coperta con le importazioni”.
Il referendum dunque, “è irragionevole” e dietro “c’è una spiegazione politica: le 8 regioni vogliono affermare il principio che a decidere in politica energetica devono essere le regioni e non il parlamento. Se questo si affermasse come principio allora mai e poi mai gli interesse nazionali prevarrebbero, ma prevarrebbero gli interessi e i ricatti localistici. E’ questo è inaccettabile”.
Quanto al futuro energetico del paese, Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, ricorda che “c'è l'impegno preso dalla politica dalla Cop21 a Parigi di alleggerire il contenuto di carbonio all'interno della nostra economia. Dobbiamo raggiungere obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione”.
Per fare questo “abbiamo bisogno di molte rinnovabili e nel frattempo anche di tantissimo gas”. In futuro, dunque, “c'è bisogno ancora di tutto, sarà una transizione lunga e molto difficile. Dobbiamo stendere tappeti rossi alle nostre industrie che vengono ad investire nel nostro paese e fra queste c'era anche l’attività collegata alle trivelle che ormai, al di là di questo referendum, non c’è più”.
Basti pensare che “nel 2014 i nuovi pozzi perforati per esplorazione o per produzione in Italia sono stati zero ed è il minimo storico dal dopoguerra ad oggi”. Questo, spiega Tabarelli, “è un paese, che ha ancora tantissime risorse di petrolio e gas ma purtroppo non riusciamo più a fare degli impianti industriali complessi come sono quelli energetici, in particolare questi a mare, dove c’è un forte conflitto e dove nel 2001 abbiamo demandato alle regioni il potere di autorizzazione. Una decisione che è stata una mezza follia”.