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Alimenti: il made in Italy dei migranti, il loro lavoro dietro i prodotti tipici

Alimenti: il made in Italy dei migranti, il loro lavoro dietro i prodotti tipici
18 settembre 2017 | 14.53
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Dietro alcuni tra i cibi e le bevande più conosciuti e consumati del made in Italy, spesso c'è il lavoro di migranti. "Avviene nelle nostre Langhe, dove le grandi vigne di Barolo sono curate dai macedoni, e in Valle d’Aosta, dove i giovani autoctoni hanno lasciato il posto ai maghrebini". Così il presidente di Slow Food Carlo Petrini intervenuto al convegno "Il latte dei migranti" in occasione di Cheese, manifestazione organizzata da Slow Food e Città di Bra.

Nella sola provincia di Cuneo, secondo i dati forniti dall’assessore alle Pari opportunità della Regione Piemonte Monica Cerutti, le persone di origine straniera impiegate nel settore dell’allevamento sono 592. In tutto il territorio regionale sono 885, il 60% delle persone regolarmente impiegate nel settore. La maggior parte sono indiani, seguiti da romeni e africani.

Ma oltre ai contratti regolarmente registrati, c’è il cosiddetto lavoro informale, impossibile da quantificare se non grazie alle stime delle associazioni di categoria, che hanno un contatto diretto e quotidiano con le aziende agricole e secondo le quali in Piemonte il lavoro informale si attesterebbe al di sotto del 10%, mentre in Valle d’Aosta sale al 15%. Poi ci sono zone del Centro Italia, come l’Abruzzo, in cui la pastorizia è sinonimo di migranti.

Per Giorgio Ferrero, assessore regionale all’Agricoltura, "il settore agricolo è la prima accoglienza nel mondo del lavoro per i migranti, ma non perché sia bassa manovalanza, perché tante aziende piemontesi che fanno eccellenza e si vantano del benessere animale, lo possono fare grazie alle persone che lavorano per loro e che fanno la differenza. Nel prossimo Piano di Sviluppo Rurale - sottolinea - ci sarà un contributo dato alle aziende che vogliono costruire alloggi di ospitalità per i loro lavoratori, per aiutare gli imprenditori nell’accoglienza che vogliono dare ai loro dipendenti".

Per quanto riguarda la pastorizia, l’impiego di migranti nel settore non è un fenomeno nuovo. Lo sottolinea l’esperto in pastorizia dei Paesi tropicali e ricercatore presso l’istituto universitario europeo di Firenze, Michele Nori: "basti pensare a quello che è accaduto in tutto il Centro Italia negli anni ’50, quando arrivarono i sardi con le navi portandosi dietro le loro pecore, ripopolando intere aree abbandonate a causa del boom economico e mantenendo tradizioni casearie e paesaggi rurali".

Ma anche in Piemonte "100 anni fa - continua l'esperto - quando dai poveri comuni di montagna si trasferirono in grandi numeri nel Sud della Francia, dove ci sono ancora intere comunità che portano cognomi italiani. Abbiamo avuto un crollo drammatico circa 30 anni fa quando a causa della mancanza di ricambio generazionale i Paesi dell’Europa mediterranea hanno perso il 30% delle greggi, ma negli ultimi anni stiamo ricominciando a salire la china proprio grazie ai migranti".

Il passo successivo? "Trovare il modo di integrarli al meglio, di permettere loro di trasformarsi da pastori in imprenditori", sottolinea Nori. In questo senso, l’europarlamentare Cecile Kyenge ha ricordato l'esempio tedesco con le sue decise politiche di accoglienza e integrazione, già prima della crisi migratoria più recente.

"Tutti hanno confuso la lungimiranza politica della Merkel con un banale buonismo - spiega Kyenge - ma lei rispondeva alla richiesta di manodopera dell’imprenditoria tedesca con una legge che apriva le porte ai flussi migratori e che ha contribuito a determinare il successo economico del Paese negli ultimi anni".

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