Il più grande fra gli scrittori americani contemporanei, maestro del romanzo, voce spietata e sincera degli Usa. Philip Roth è morto questa notte, fatalmente nello stesso anno in cui, per la prima volta dopo decenni, l'Accademia svedese non assegnerà il Nobel per la Letteratura. Lui, eterno candidato, quel premio non lo ha mai vinto.
Ottantacinque anni, sessanta dei quali passati a scrivere, Roth è stato autore di oltre trenta titoli fra racconti e romanzi come 'Addio Columbus', 'Il lamento di Portnoy' - capolavoro dello scandalo nell'America alla soglia degli anni 70, con il riferimento esplicito alla masturbazione del protagonista - e 'Pastorale Americana', racconto della vita in pezzi di Seymour Levov che gli vale il premio Pulitzer nel 1998, primo capitolo di una trilogia epocale insieme a 'Ho sposato un comunista' e 'La macchia umana'.
Nato nel New Jersey da una famiglia ebraica, Philip Roth ha raccontato la piccola borghesia americana dalla quale proveniva attraverso voci e parole dei suoi personaggi, da Levov a Nathan Zuckerman passando per Alexander Portnoy e sé stesso: morale, ma anche sesso e religione i temi ricorrenti per mostrare vita e contraddizioni della società contemporanea.
Nel 2010 'Nemesi', l'ultimo romanzo. Nel 2012 l'addio ufficiale alla scrittura dalle pagine della rivista francese Les Inrockuptibles: "Alla fine della sua vita - ha scritto - il pugile Joe Louis disse: "Ho fatto del mio meglio con i mezzi a mia disposizione". È esattamente quello che direi oggi del mio lavoro. Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne". Un addio senza rimpianti con la richiesta ai parenti di distruggere l'archivio personale dopo la morte. Il decesso stanotte, "circondato - assicura il biografo Blake Bailey - dai suoi amici di una vita che lo hanno profondamente amato".