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Strage Bologna, perizia: "E' un unicum, no analogie con altri attentati in Italia"

"Usato esplosivo di origine bellica ricavato da munizioni militari. I resti di Maria Fresu potrebbero essere tumulati con altri corpi"

(Fotogramma)
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22 ottobre 2019 | 17.06
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La strage di Bologna è "un unicum", non ci sono analogie con altri attentati avvenuti in Italia. E' una delle conclusioni a cui sono giunti i consulenti tecnici incaricati dalla Corte di Assise del capoluogo felsineo che sta processando, con l’accusa di concorso in strage, l’ex Nar Gilberto Cavallini.

Nelle 82 pagine di addendum alla perizia tecnica esplosivistica sull’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, consegnata ieri a tarda sera, Danilo Coppe, esplosivista geominerario, e il tenente colonnello Adolfo Gregori, comandante del Laboratorio Chimica Esplosivi del Ris dei carabinieri di Roma, passano in rassegna tutti gli attentati – 63 - avvenuti in Italia nel periodo compreso fra il 1969 e il 1980 comparando in maniera approfondita il tipo di esplosivo utilizzato, la tecnica, la logistica, il target, gli esiti, i contenitori, la quantità di vittime, i tipi di timer e gli inneschi, le attribuzioni e le rivendicazioni, le indagini svolte e le conclusioni processuali giungendo a ribadire che la strage di Bologna è una sorta di unicum e che "non si possono ravvisare modus operandi seriali specifici legati alla strage di Bologna".

Insomma, forse è necessario guardare a ciò che è accaduto in quegli anni all’estero per comprendere meglio l’attentato alla stazione di Bologna che fece 85 vittime e 200 feriti.

Quanto all’esplosivo utilizzato, nella perizia principale consegnata alla Corte d’Assise nei mesi scorsi, Coppe e Gregori avevano già parlato di un esplosivo “recuperato” da ordigni bellici della seconda guerra mondiale e ora, nell’addendum che risponde ai quesiti della Corte, delle parti e dei consulenti tecnici del pm, i periti approfondiscono il tema spiegando, nelle note conclusive, che "essendo 'evidente' la presenza di Tnt ed Rdx, oltre la dinamite gelatina, nell’esplosivo usato a Bologna il 2 agosto 1980, la scelta cade o sul Compound B o meno probabilmente sulla Tritolite. Il primo di provenienza Usa, il secondo Europa".

"Il Compound B – ricordano Coppe e Gregori elencando, uno ad uno, i tipi di ordigni bellici - è un esplosivo impiegato nella seconda parte del Secondo Conflitto Mondiale. Largamente impiegato nelle bombe d’aereo" le quali "hanno ovviamente un peso che, per un recupero subacqueo, necessita di palloni di sollevamento o argani in superficie".

Di qui la necessità di guardare ai proiettili di artiglieria "relativamente maneggevoli" e che "per chi scrive sono sostanzialmente due": "Colpo da cannone navale da 5”/38 con peso carica di circa 1,8 kg" oppure "colpo da artiglieria da 155 con peso carica di circa 6.9 kg".

Se, invece del Compound B (angloamericano), si fosse trattato di Tritolite (europea), i due periti incaricati dalla Corte d’Assise di Bologna rintracciano 21 ordigni bellici concludendo, tuttavia, che "avendo trovato tracce di cariche da lancio parrebbe orientarsi l’origine del Compound B della strage di Bologna verso il colpo da cannone navale da 5”/38 con peso carica di circa 1,8 kg o il Colpo da artiglieria da 155 con peso carica di circa 6.9 kg".

"Va ricordato ancora che, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in Italia si è scatenata una ricerca spasmodica dei residuati bellici per il recupero di metalli – scrivono l’esplosivista geominerario Danilo Coppe e il colonnello del Ris di Roma, Adofo Gregori - I 'Recuperanti' non si fermavano di fronte a nessun rischio e scaricavano sistematicamente quasi tutti i tipi di ordigno. I più coscienziosi bruciavano l’esplosivo estratto. Altri lo rivendevano e altri ancora lo nascondevano per vari scopi".

"L’esplosivo di Bologna – concludono i due consulenti tecnici - è sicuramente di origine bellica, frutto dello scaricamento di munizionamento militare. Chi disponeva di detti materiali poteva disporre ed utilizzare anche cariche di lancio ad integrazione di quelle più potenti".

I due periti, inoltre, rispondendo a uno dei quesiti posti dalla Corte sulla compatibilità dell’esplosivo di Bologna, smontano tecnicamente, dal punto di vista esplosivistico, le dichiarazioni di Sergio Calore, che si definiva un artificiere dell’Esercito vantando le sue capacità al riguardo, rilasciate, nell’interrogatorio del 9 dicembre 1987, su Fachini e sugli esplosivi provenienti da recuperi di materiale bellico fatti in un laghetto: "Il giudizio, a seguito dell’attenta lettura di tutte le sue dichiarazioni, è in parte peggiorato, riscontrando forti carenze nelle valutazioni sugli esplosivi". In sostanza, quando si parla di esplosivi, Calore non appare attendibile.

Quanto alla parte di volto di donna inizialmente attribuito a Maria Fresu, la giovane mamma sarda che si sarebbe disintegrata nell’esplosione all’interno della sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna e i cui resti furono riesumati il 25 marzo scorso nel cimitero di Montespertoli da Coppe con l’ausilio del professor Stefano Buzzi, su incarico della Corte d’Assise, l’esplosivista geominerario e il colonnello dell’Arma ritengono "sia possibile che il volto sia appartenuto a 6 delle vittime cui è stato dato un nome, mentre la mano aveva 2 possibili appartenenze".

In particolare, "in relazione allo scalpo e alla maschera facciale, ritenuti appartenenti, a torto, alla povera Fresu Maria, sempre in base a quanto risulta dalle, a volte sommarie, descrizioni effettuate al tempo nei verbali di ricognizione esterna, possiamo elencare – spiegano i periti alla Corte - alcune vittime che presentavano deformazione dell’ovoide cranico con perdita di sostanza, mai meglio specificata dal punto di vista identificativo (Casadei Flavia, classe 1962 “deformazione con schiacciamento del viso”; Dall’Olio Franca, classe 1960 “schiacciamento del capo”; Ebner Berta, classe 1930 ”schiacciamento del capo con esposizione del cervello”; Frigerio Enrica, classe 1923 ”sfacelo traumatico del capo con esposizione della cavità cranica e distruzione massiccio facciale”; Olla Livia, classe 1913 ”scalpo del cuoio capelluto con integrità cranica”; Rohrs Margret, classe 1941 ”capo deformato”; Sala Vincenziana, classe 1930 ”sfacelo traumatico del viso e del capo con perdita dei tratti somatici, larga esposizione della scatola cranica”)".

Il perito va poi contro la testimonianza dell'amica superstite di Maria Fresu che ha sempre raccontato di averla vista davanti a lei, lontana dalla bomba. "Un dato è certo - scrivono nella loro relazione i due consulenti - La povera signora Fresu non era, al momento dell’esplosione al fianco dell’amica sopravvissuta Silvana Ancellotti, come invece a suo tempo testimoniò, sicuramente in buona fede. Sarebbero, infatti, bastati pochi secondi (3-5) affinché Maria Fresu attraversasse la sala d’aspetto e si portasse dentro i 5-7 metri dall’ordigno. Il volto con scalpo rinvenuto doveva essere di una donna sempre all’interno dei 5-7 metri”.

“Il volto con scalpo rinvenuto doveva essere di una donna sempre all’interno dei 5-7 metri. Se è vero che tale volto è stato trovato sui binari, è altresì evidente che il corpo ad esso appartenuto - specificano Coppe e Gregori - era in linea col muro divisorio della sala d’attesa rispetto alla banchina ferroviaria. Peraltro sul volto rinvenuto non vi erano tracce evidenti di combustione. Certamente per ritrovare le parti della povera Maria Fresu non ci sono soluzioni oggi praticabili”.

Rispetto al corpo introvabile di Maria Fresu, che per anni - andando contro la scienza - si è detto esser stato polverizzato dall'esplosione, la perizia si spinge a ipotizzare quanto mai ipotizzato fino ad oggi. Ovvero "l’alta possibilità che parti di esso siano state tumulate con i corpi rinvenuti accanto ad essi e parte siano finiti" in un "contenitore". Quindi, o si riaprono tutte le bare oppure il giallo resterà insoluto.

Per quel che riguarda la mano trovata a Prati di Caprara, Coppe e il professor Stefano Buzzi concordano con quanto scritto all’epoca dal professor Pappalardo "in merito ai resti umani relativi alla mano, definiti come compatibili con 'un soggetto femminile di giovane età e di piccola statura'”. "Rileggendo il predetto materiale – scrivono i periti ora nell’addendum alla precedente relazione - tale descrizione si attanaglia benissimo alla descrizione dei resti della povera Ceci Antonella, classe 1961 (quindi, all’epoca, 19enne), le cui spoglie mortali risultarono di una lunghezza di circa 150 cm" e che subì l’amputazione quasi totale della mano.

"Fra le sopravvissute – aggiungono - anche la Toschi Teresa seppur di età nettamente superiore, in cui si parla genericamente di 'spappolamento della mano', non permette di capire esattamente circa lo stato del moncherino".

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